Dopo pochi minuti Otello e il commissario tornarono al piano terra lasciando due poliziotti della scientifica che eseguivano i primi rilievi scientifici e le prime fotografie alla presenza del medico legale.
Lattanzi allestì il suo ufficio per gli interrogatori nel bar della pensione e cominciò subito a raccogliere le deposizioni dei presenti.
Ad uno ad uno entravano nella grande sala bar occupata soltanto dal commissario e da un agente che verbalizzava, restavano qualche minuto e appena usciti pagavano il conto, saltavano in macchina e scappavano come se fossero inseguiti dalla peste.
Otello, intanto, era tornato fuori.
Faceva freddo e il chiarore della mattina aveva diradato un po’ la nebbia; il giovane poteva, per la prima volta, osservare alla luce il luogo dove si trovava.
Il casolare era bello e la facciata era stata ristrutturata di recente; anche gli infissi erano nuovi e tutto, sebbene il piazzale sterrato fosse pieno di pozze d’acqua e di fanghiglia, dava una sensazione di ordine e di pulizia. L’aria ghiacciata e umida pizzicava nel naso e gelava la gola, ma risvegliava il cervello e il corpo affaticati e intorpiditi dalla notte e dalle emozioni.
Otello girava lentamente intorno alla casa facendo attenzione a non infilare le scarpe nel fango. Sul retro il terreno era meno accidentato perché non c’erano i solchi lasciati dalle ruote delle auto.
In mezzo allo spiazzo c’era un antico pozzo con tutti i sassi a vista, rotondo e bello e poco dietro, alla sua destra, si alzava maestoso, dritto e altissimo, un acero secolare il cui tronco aveva un diametro di oltre un metro e la chioma dipingeva il cielo dei colori dell’autunno.
Otello si fermò ad ammirarlo e cercò di impregnarsi dell’armonia della natura.
Cominciava di nuovo a piovere: piano, questa volta, delicato e leggero.
Il giovane si mosse e stava per ritornare sul davanti quando notò una finestrella, quasi a filo del terreno, come un boccaporto.
Si avvicinò a guardare: era una piccola presa di luce per le cantine, aperta verso l’interno e protetta da uno scannafosso.
Otello si calò nello scannafosso, infilò la testa dentro alla finestra, poi entrò con le spalle, ma non riuscì ad andare oltre.
Si tirò fuori e fece passare prima i piedi, si mise a sedere sul davanzale e si lasciò cadere nel buco.
Fu un salto non più alto di due metri.
Dopo pochi secondi la vista si abituò alla poca luce: c’erano damigiane di vino, vuote e piene, una grossa forma di formaggio parmigiano intatta e, attaccati in alto, dei salumi.
La cantina, come il resto della pensione, era pulita e ben organizzata: in un angolo un mobile con tanti cassetti, alla parete una rastrelliera con diversi attrezzi da lavoro sistemati in ordine di grandezza.
Aprì la porta di legno grezzo e vide una scala di pietra del cardoso che saliva verso il piano terra della pensione.
“Da qui si sale fino all’ultimo piano. – pensò Otello – Adesso bisogna vedere se per la stessa via si può anche uscire”.
Tornò in cantina, si chiuse la porta alle spalle, si avvicinò alla piccola finestra.
Alzò le braccia e con le mani toccò bene il davanzale, si aggangiò con forza e si diede una spinta con le gambe, pedalò nel vuoto e contro il muro e con un certo sforzo si ritrovò, di nuovo, all’aria aperta, prima nello scannafosso e poi sdraiato sullo stretto marciapiede che contornava il casolare. Si alzò scuotendosi la giacca e pantaloni, tutti impolverati e sgualciti:
“Guarda come mi sono conciato!”
Si lamentò ad alta voce.
La pioggia, ora, aumentava d’intensità, ma Otello, ormai, voleva controllare il terreno lì intorno e, facilmente, trovò le tracce di passi affondati nel pantano che, venendo dalla strada, avevano sceso il poggio ripido e attraversato il piazzale e, poi, erano tornati indietro.
Di corsa il giovane si diresse verso l’ingresso principale ed entrò per avvisare il commissario Lattanzi delle sue scoperte, ma un poliziotto davanti alla porta chiusa del bar lo fermò:
“Non si può disturbare.”
Disse imperioso.
“Credo di dovergli comunicare una cosa importante.”
Tentò Otello.
“Il commissario sta parlando con il medico legale e mi ha ordinato di non far entrare nessuno.”
“D’accordo – si rassegnò Otello – ma appena si libera digli che ho bisogno di parlargli.”
L’altro neanche rispose.
Otello tornò indietro guardandosi le scarpe coperte di fango, i pantaloni e la giacca tutti schizzati; si guardò le mani sporche:
“Chissà chi cazzo me lo ha fatto fare.”
Disse facendosi sentire da tutti.
Sali al bagno di servizio per lavarsi le mani e, finalmente, anche la faccia.
Quando ridiscese notò che Sandra, seduta dietro il bancone della reception, piangeva in silenzio, i piedi appoggiati ai gambi della sedia, i gomiti puntati sulle ginocchia, il viso tra le mani.
La guardò dolcemente, poi girò dietro il bancone e si abbassò di fronte a lei.
“Si faccia coraggio Sandra, su, si faccia forza.”
Lei non riusciva a parlare, apriva la bocca lievemente, poi la richiudeva scuotendo piano la, testa.
Ci furono lenti secondi di silenzio, poi lui allungò la mano e cominciò ad accarezzarla delicatamente dietro la nuca.
Lei alzò appena il viso e sorrise, triste, come per ringraziarlo: aveva due grandi occhi neri; ai lati aveva piccole e tenere pieghe accentuate dal pianto che davano più importanza a quel volto intenso.
Avrà avuto poco più di quarant’anni e portava con sé tutta la bellezza di una donna che ha già molto gioito e ancor più sofferto.
“Era una ragazzina disse lei sottovoce. Aveva ancora intatte tutte le sue certezze e le sue speranze. Non mi sembra vero, non è giusto che sia vero”.
“Purtroppo il destino non ci conta gli anni addosso – disse lui banalmente – l’importante è andare avanti fin che si può, non arrendersi. Anche lei vedrà che da domani, riprendendo il normale lavoro, ritroverà il suo mondo, i suoi affetti e tutto tornerà migliore”.
Lei scosse, ancora, la testa.
“Ho paura che per me sia tutto finito. Tutto ha preso ad andare male. Non mi era rimasto che questo lavoro, la gioia di tirare avanti la mia pensione in un luogo che amo. Non so se dopo quello che è successo stanotte avrò più la forza di proseguire.”
“Certo che ce la farà – insisté Otello con giovanile sincerità – e poi il lavoro non è tutto nella vita.”
“A me non è rimasto che quello: io sono sola… sono rimasta sola. I miei genitori sono morti anni fa ed il mio compagno … Io … io non ho più un compagno che possa aiutarmi, abbracciarmi, ridarmi il coraggio e la forza di continuare.”
“Lei è cosi bella che non può essere sola.”
“Non dica stupidaggini – disse lei con il dolore negli occhi – io ho amato … mi sono fidata, ho dato tutta me stessa… ho. troppo amato, ma ora non conosco più l’amore.”
Si udì, fuori, arrivare un furgone, a tutta velocità.
Il mezzo Inchiodò con fragore vicino alla porta d’ingresso.
Un uomo entrò trafelato sbattendo la porta.
“Eccolo!”
Disse Sandra restando seduta, senza muovere un muscolo e con un lampo di rabbia e paura negli occhi.
L’uomo prese per la giacca il poliziotto che era di guardia alla porta e che lo aveva fermato.
Cominciò a urlare.
“Sandra! Sandra! Dov’è Sandra! Cos’è successo!”
La voce gli si strozzò in gola: Sandra si era alzata in piedi e dal centro della stanza lo fissava con dignità.
L’uomo era magro, scavato in volto, nervoso e allucinato, ancora giovane; si passò una mano tra capelli lunghi e scomposti, fece un passo indietro lasciando il poliziotto.
Era sbiancato e con il suo sguardo cercava di sostenere quello di Sandra.
Alla fine dalle sue labbra uscì un sorriso sgraziato.
“Sandra, amore. Stai bene? – balbettò – Tutta questa polizia, questo casino… Mi avevano detto che era successa una disgrazia.”
Le si era fatto incontro, si era avvicinato a lei e, allungate le mani, cercava di toccarla.
Lei era rigida, gelata.
“Non mi toccare – disse – e non gridare più. Questo, nonostante te, è ancora un luogo dignitoso. Se mi vuoi parlare, vieni in ufficio.”
La donna guardò negli occhi Otello, dedicandogli un sorriso, e si avviò seguita dall’uomo.
Otello si sentiva triste e stanco: la rabbia dolce e amara che era uscita dagli occhi belli di Sandra gli aveva ricordato, come un colpo d’ascia, quella di Laura la sera che, senza un grido, senza un lamento, con poche parole gli aveva cantato il suo dolore muto e disperato:
“Se mi ami non te ne puoi andare.” aveva detto lei.
Sempre la stessa frase, ripetuta all’infinito.
E le spiegazioni e le promesse di lui non avevano piegato la certezza di lei.
Quella frase si era moltiplicata milioni di volte nella mente di Otello: di notte, in branda o in albergo; di giorno al corso o in pattuglia.
Ora avrebbe voluto piangere e gridare, ma fece come sempre: scosse le spalle e si ripetè, fatalista:
“Il destino di un uomo non si cambia.”
Tornò davanti alla porta chiusa del bar.
Il poliziotto si stava mangiando le unghie e vedendolo tornare gli disse
“Niente da fare, collega Non sono ancora usciti.”
In quell’attimo la porta si apri, e si affacciò il commissario, che disse al poliziotto:
“Tonarelli, per favore, procura un po’ di caffè e delle sigarette che le mie le ho finite.”
“Commissario – chiamò Otello -, commissario, le posso dire due parole?”
Fine parte sesta – continua –