Biagio attraversò di corsa la strada, poi la chiamò.
Giulia si voltò.
Era qualche metro avanti, ma Biagio vide bene che il volto di lei si era infiammato; lui sentiva il cuore battere forte tra il petto e la gola e lei, sorpresa, stravolta, contrariata, non sapeva più che fare: fece qualche passo verso di lui, poi si arrestò.
“Tu qui? Che fai?”
Balbettò.
Aveva lo sguardo di una persona che improvvisamente avesse ritrovato l’amore e insieme perduto la serenità.
Era come l’attrazione di una vertigine, la calamita di una perdizione.
Biagio la raggiunse in mezzo alla strada.
“Sono tornato ieri sera, ho bisogno di parlarti, mi sei mancata molto.”
Giulia lo guardava con rabbia, sentiva crescere dentro di sé la voglia di urlare e di prenderlo a schiaffi.
Lo amava perdutamente o lo odiava terribilmente.
“Cosa vuoi che m’importi di quanto ti sono mancata; mi vuoi prendere ancora in giro? Ho passato per colpa tua i mesi più brutti della mia vita. Adesso che comincio a uscirne sei tornato per farmi di nuovo male? Cosa vuoi ancora da me?”
“Io ti capisco – disse lui cercando di prenderla per un braccio – ma sai, anch’io …”
“Non mi toccare – gridò lei strattonandolo via – vattene, sparisci, non ti fare più vedere.”
Biagio era disperato, non riusciva a resistere alla rabbia di Giulia: sapeva di averle fatto solo del male e che la reazione di lei era scontata, giusta, forse fin troppo generosa perché ancor peggio della rabbia sarebbe stata l’indifferenza.
Biagio non aveva alcuna buona ragione da presentarle se non il fatto che, forse, ancora l’amava, che tornava sconfitto da una prova più grande di lui, che i suoi errori non erano dettati da cattiva volontà ma dalla pura e semplice impossibilità a comportarsi diversamente.
Sì, in sostanza lui era convinto di non poter gestire i propri limiti e la propria incapacità a programmarsi un futuro normale come tutti.
Biagio considerava se stesso incompleto, mancante di una parte determinante del carattere o peggio ancora si considerava un malato di mente; la sua volontà non poteva dominare il suo disgraziato umore.
Fece ancora uno sforzo.
“Giulia – le disse – sono tornato per ricominciare, con te. Ti prego parliamone. Nella nostra storia non è stato tutto negativo, tutto da buttar via, non credi?”
Ma il suo tono non era convinto né convincente.
“E questo che vuol dire? Ma davvero credi che io sia così ridotta male da aspettare tutto il tuo comodo? Tu parti, io ti aspetto, tu torni e io ti amo più di prima? Sei pazzo e cattivo.”
“Non tu, sono io che son ridotto male…”
“Non compiangerti, vigliacco. C’è chi ha problemi più grossi di te, c’è chi ha problemi veri e li affronta con dignità; tu ti sei sempre nascosto.”
Si era alzato di nuovo il vento e la temperatura era scesa. Le fronde degli alberi erano scosse, frusciavano e sibilavano in balia del vento; gli alberelli di natale, messi lungo i marciapiedi ad abbellire gli ingressi dei negozi, si piegavano pericolosamente.
Giulia aveva gli occhi lucidi e la voce rotta.
Era spaventata.
Temeva, dentro se, di non avere la forza necessaria a respingerlo definitivanente.
“Non è giusto che tu continui a tormentarmi, io non ti ho fatto niente di male; ho cose importanti da fare, ho altri programmi, ho problemi seri da risolvere. Tu, Biagio, sei soltanto una parte del mio passato; un passato che non può più tornare, che non voglio che torni…”
“Non credo che tu stia dicendo quello che senti veramente – insistè lui – non puoi farti violenza per punire me e te stessa. Abbiamo fatto degli errori, ma se lo vogliamo possiamo avere un futuro insieme.”
“No! – disse lei con voce strozzata – Te l’ho già detto, non voglio dividere il mio futuro con te”.
Passò un cane.
“Ascoltami, Giulia – disse Biagio assumendo un tono più deciso -, ascoltami, ti prego: quando ci siamo lasciati eravamo tutti e due in preda a una crisi profonda, di idee, di nervi, di prospettive, e forse era inevitabile che andasse così. Ma ora abbiamo una nuova possibilità, nuove prospettive, forse siamo più maturi…”
Giulia era stanca, scuoteva la testa, era sempre più arrabbiata e infastidita.
“Stai facendo discorsi assurdi – gli disse, infine – da fumetto rosa. Che ne sai tu, ora, di me? Che ne sai di quanto sono maturata io? E io avevo bisogno di maturare? Non farmi ridere.”
“Io ti amo ancora – le disse Biagio – e anche tu mi ami ancora.”
“No io non ti amo più, Biagio. Io amo un uomo che mi da prospettive di vita serena e felice. Un uomo che conosce cosa vuole e che sa come farmi stare bene.”
“Non è possibile! – strillò Biagio con le lacrime agli occhi – è quel tipo con il macchinone?”
“Non importa chi è, Biagi. Non è una cosa che ti riguarda.”
“Tu mi amavi. Mi avevi detto che mi avresti amato per sempre.”
“Vedi Biagio, in effetti c’è qualcosa in te che io amo ancora, che forse amerò per sempre. Non so cosa sia, ma lo sento: è rimasta dentro di me in questi mesi, nascosta, ed è tornata fuori, con forza, prima, quando mi hai chiamata e ti ho rivisto. Ma non basta: non basta più alla mia ragione, che non vuole più correre rischi con te e con la tua instabilità. Io e te siamo troppo diversi e non potremo mai andare d’accordo. Stare con te è stato meraviglioso e al tempo stesso disastroso. Con te ho sofferto come mai avevo sofferto prima. Se stessimo insieme saremmo infelici per sempre tutti e due, sarebbe un inferno.”
“Perché dici questo? Perché mi ferisci così?”
Provò a chiedere Biagio.
“Perché sei uno stupido egoista che pensa solo per se stesso e crede di essere il centro del mondo. Invece sei un poveretto, incapace di amare e di prendersi cura degli altri. Io non ho più tempo per te. Per uno come te.”
Calò, allora, il silenzio tra i due giovani. Nella strada passava, ogni tanto, una macchina; un uomo con cappello, paltò e sigaretta in bocca che passeggiava con aria distinta passò accanto ai due ragazzi con passo flemmatico, quasi sfiorandoli, li guardò appena con distacco e indifferenza, si allontanò.
“Mi dispiace – riprese Giulia – che tu abbia perso tempo per venirmi a cercare. Torna dai tuoi maledetti amici inglesi. Io ora devo andare, è inutile continuare a parlare, non credo che abbiamo più molto da dirci. Se davvero mi vuoi bene lasciami perdere: concedimi la possibilità di dimenticarti, è meglio per tutti.”
Giulia se ne andò con passo svelto e deciso: aveva gli occhi gonfi di pianto, il cuore in tumulto e la testa piena di pensieri tristi e confusi.
Biagio la guardò allontanarsi e sparire dietro l’angolo di una bella casa del centro.
Si diresse, mestamente, verso la macchina, salì e fece per mettere in moto, ma si fermò con la mano che stringeva la chiavetta e il piede sinistro calcato sulla frizione, immobile.
Pensava, ma non riusciva a liberare la mente dalla nebbia che lo avvolgeva da mesi, sempre più fitta: l’ansia di fare, di costruire, di scegliere, lo rendeva, paradossalmente, inoperoso e inattivo, incapace alla scelta decisiva.
Invidiava la semplicità e la limpidezza di scelta del fratello, invidiava l’orgoglio e la grinta di Giulia.
La mano girò la chiave. La macchina si avviò lentamente. Voleva piangere, si guardava intorno con gli occhi velati di lacrime e non capiva. Non capiva più il motivo dell’angoscia, del dolore e della rabbia che provava insieme. Fece pochi metri e si dovette fermare al semaforo, tirò fuori dal cruscotto il pacchetto delle sigarette e ne accese una.
Il semaforo era tornato verde, ma lui non se n’era accorto; dietro a lui uno straboccante signore a bordo di un’Alfa 164 si spazientì e suonò a lungo il clacson. Biagio scese dalla macchina e si avventò contro l’uomo.
“Che cazzo vuoi – urlò – eh? Che cazzo vuoi, stronzo, faccia di merda. Te lo ficco in culo il tuo clacson merdoso!”
L’uomo dell’Alfa da dietro il vetro del finestrino fece per rispondere, ma da fuori si vedevano solo muovere le labbra e la faccia grassa che diveniva sempre più rossa.
Biagio tornò indietro, mentre i camerieri del bar di fronte, richiamati dalle sue grida, lo guardavano divertiti. Salì in macchina e partì passando con il rosso. Fece due volte il giro dell’isolato cercando di incontrare ancora Giulia, ma la ragazza era sparita; allora si diresse a velocità sostenuta verso l’imbocco dell’autostrada. Le vie erano vuote, tranquille, e il sole di dicembre illuminava un paesaggio sereno. L’aria limpida, spazzata dal vento forte, avvicinava i contorni, bellissimi, delle Alpi Apuane e l’imponente parete grigia del monte Altissimo sembrava potersi toccare; pareva che la natura controllasse sicura, dall’alto delle montagne, il confuso mondo degli uomini.
Biagio guardava rapito l’affascinante scenario, mentre la macchina filava veloce, lungo la via Provinciale, verso la deviazione dell’autostrada.
Ma che senso avrebbe avuto una nuova fuga? Quale sarebbe stata la sua destinazione e quali strade avrebbe percorso la sua vita? Biagio temeva di cadere nell’abisso del ridicolo e della disperazione; non era forse giunto il momento di fermarsi, di riflettere seriamente sul futuro piuttosto che sul passato e provare a realizzare qualcosa, a ottenere qualcosa dalla vita? Era questo che avrebbe dovuto fare, con o senza Giulia.
“Sto cominciando a ragionare come Cesare – pensò – il pragmatismo innanzitutto, ragione e concretezza!”
Fine parte quarta – continua –