Lettera di Sergio Barsanti al collega Giuseppe Matteucci
Caro Giuseppe
caro amico mio, caro collega prezioso e sincero,
sono più di quattro anni che non ci vediamo e non ci sentiamo, se non per mezzo di brevi missive: da quando la mia vita si è frantumata nel muro dei gravi delitti che ho commesso.
Ti scrivo perché so che posso fidarmi totalmente della tua lealtà e perché sono oramai giunto alla fine del mio percorso di espiazione senza remissione.
Fin dai primi momenti della mia incarcerazione e successiva condanna ho avuto chiaro, dentro me, che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di ritorno alla vita normale e che la riflessione su ciò che avevo commesso sarebbe stata inesorabile e spietata.
Nessun dio è sceso mai, nel corso di tutta la mia vita ad illuminarmi, nessuna fede, nessuna religione è stata mai capace di prendermi e darmi sollievo.
Per quasi due anni, dalla mia condanna, ho disperatamente cercato di rintracciare le radici del mio male e le origini delle mie colpe e dei miei delitti.
Non ho trovato niente, salvo lo spegnersi progressivo e inspiegabile della voce della mia ragione che è avvenuto, io credo, indipendentemente dalle dolorose vicende della mia vita precedente, ma per un inesorabile indebolimento e declino della mia consapevolezza civile e un contemporaneo risveglio di istinti primordiali di supremazia e sopraffazione, di dominio e potenza.
Ho attraversato un lungo periodo di oscuramento della razionalità e un rivolgimento dei sentimenti e delle sensibilità, quando la nebbia si è diradata e si son risvegliate le capacità di analisi e giudizio tutto si era già compiuto: il male si era inverato e la ma vita era finita.
In questi anni non ho più sentito mia figlia che non ha mai risposto alle mie chiamate e ai miei messaggi.
Ho saputo che subito dopo la ma condanna è tornata per qualche giorno in Italia, a casa nostra, e ha portato via tutte le sue cose e quelle di sua madre… di mia moglie.
Di mia moglie così non possiedo più niente, niente di lei è con me, neanche una foto.
E mi vergogno a dirti che da qualche tempo ho cominciato a perdere memoria anche del suo volto.
Non ci crederai, amico mio, ma questa è una sensazione orribile.
Di lei ho infiniti e bellissimi e malinconici ricordi immateriali, ma mi sono scomparse praticamente tutte le immagini.
Certo, a pensarci bene, la morte di Luisa ha corrisposto con la mia stessa morte: niente è più stato come prima e il mio cuore è stato colpito da un senso di pesantezza che non è mai più scomparso.
In questi anni di carcere, come potrai capire, ho pensato molto alla mia vita passata e ora posso dire che con la morte di Luisa io ho perduto per sempre la sensazione di leggerezza, di spensieratezza, di sollievo che offre una vita serena e compiuta.
So bene, poi, che in ognuno di noi con il tempo avviene, molto probabilmente, un passaggio negativo dalla vita spensierata a quella grave e greve dell’età adulta e che avviene indipendentemente da fatti e avvenimenti drammatici come quelli vissuti da me.
Che dire, forse, probabilmente io non ero preparato ad affrontare tanto dolore, sarò stato più debole o vigliacco di altri… così mi sono dovuto aggrappare all’amore per mia figlia che è stato enorme e che, per me, resta ancora immutato nonostante il tormento che mi provoca il suo rifiuto di me.
E poi, dopo lei, alle donne che bene o male mi sono state vicino e con le quali ho provato ad anestetizzare la mia vita.
In definitiva, poi, soltanto con Claudia sono riuscito ad abbozzare un nuovo progetto di vita che presto però è naufragato nelle mie contraddizioni, nelle mie insicurezze e nei miei continui cambiamenti di prospettiva: non ero certo io “l’uomo verticale” con cui le sperava di trascorrere la vita.
Così dopo numerosi tentativi di migliorarmi miseramente falliti Claudia ha deciso che era meglio finirla.
In quel tempo ero già un uomo segnato negativamente dai propri limiti e dalle proprie disgrazie, ma non avevo ancora fatto conoscenza diretta del male morale.
Quello, il male morale concimato dai sentimenti di rabbia, risentimento e odio, l’ho conosciuto durante la mia relazione con Marta quando l’idea di lei si è trasformata per me in una ossessione.
Ho lungamente riflettuto nei primi mesi di carcere per capire cosa era successo e per capire di chi fosse stata la colpa della mia fatale, seppur temporanea, follia. Devo dire che non c’è una colpa, che non è vero che Marta mi avesse portato a tali eccessi, non è vero che era lei ad essere sbagliata.
Marta era Marta ed era sempre stata così come l’ho conosciuta io: una giovane donna abituata a cogliere il giorno, a coltivare amicizie, ad assaggiare i frutti della vita. Non si comportava come si comportava per agire contro di me, semplicemente seguiva coerentemente il proprio stile di vita e, per quanto ho potuto sapere della sua vita dopo quella spaventosa notte, sono io a aver gravemente danneggiato la sua vita e non il contrario.
Il male albergava dentro me e si nutriva di me. Il male era dentro me e mi possedeva: mi illudeva, mi ingannava e decideva per me.
Caro Giuseppe, caro amico mio,
quando leggerai questi miei pensieri io non ci sarò più quindi ti tolgo il doloroso compito di rispondermi e commiserarmi, di consolarmi, di contraddire ciò che scrivo e di implorarmi di resistere ancora.
La decisione è presa: non voglio più vivere, non ho più un solo motivo per vivere.
Sono sopravvissuto malamente per venticinque anni alla morte di mia moglie e dieci dal distacco con la mia adorata figlia (ti confesso che senza fare torto a Luisa, che è l’unica donna che ho amato e adorato veramente e con tutto me stesso, la perdita dei contatti con Sylvie mi causa oggi un doloro molto più forte e grave e molto più colmo di dispiacere e rammarico).
Ecco, caro amico mio, che sono giunto al punto dove le mie colpe e i miei delitti si mescolano alle mie disgrazie e rendono la mia vita non più sopportabile.
Da oltre due anni ho smesso di leggere libri e saggi, le mi letture erano diventate aride e inutili e mi conducevano sempre a domandarmi perché, con tutte le mie conoscenze, mi ero comunque abbassato a compiere gesti così selvaggi, turpi e criminali.
Tutte le mie letture non mi hanno impedito in effetti di cedere ad istinti disumani.
Perché continuare a leggere, dunque?
In questi ultimi due anni, invece, grazie alle opportunità che offre la gentile detenzione in un luogo così meraviglioso come l’isola di Gorgona, ho potuto prendermi cura del mio corpo in modo costante e continuo.
Dovresti vedermi: sono tonico, abbronzato, muscoloso.
L’unica cosa che mi procura un poco di sollievo è la stanchezza fisica per questo dedico tutto il mio tempo a fare esercizi fisici e a coltivare la terra e i vigneti di Frescobaldi dove vengono prodotte circa novemila bottiglie all’anno di un prelibato vino biologico vermentino e ansonica.
Pensa che un bottiglia viene venduta a circa ottanta euro!
Ma, come ti ho già scritto tutto questo non mi basta più.
Vivo in un luogo da sogno a scontare una pena per una colpa terribile, vedo ogni giorno paesaggi meravigliosi, ma la solitudine affettiva che mi circonda mi impedisce il respiro e mi soffoca, come mi soffocano i rimorsi e la consapevolezza di una mia colpa ingiustificabile e che io non riesco a perdonarmi.
Vorrei poter morire dolcemente, addormentandomi come per una anestesia tenue e senza risveglio.
Ma questo nel nostro Paese, come sai non è possibile.
Vorrei morire, vorrei suicidarmi senza spargimento di sangue, senza spargere il mio sangue come ho fatto con il povero sangue dell’uomo indifeso che ho ucciso quattro anni fa e che ho goduto ad uccidere e non vorrei neanche farmi trovare impiccato in cella: è questa una desolante immagine di me che vorrei evitare.
Bene, a breve troverò sicuramente un modo per farlo e allora questa mia lettera ti verrà inviata assieme ad una memoria del giorno della mia caduta e del mio arresto che ho scritto un anno dopo i funesti avvenimenti del 2013 e che ho custodito gelosamente fino alla prossima fine dei miei giorni.
Caro Giuseppe, Caro amico mio,
ti ringrazio per la tua bella e preziosa amicizia, per il conforto e il sostegno che mi hai sempre dato e che mi hai confermato anche in questi anni della mia carcerazione, nei quali ti mia hai scritto decine di bellissime e affettuose lettere a cui io ho risposto con pochissimi e brevissimi messaggi.
La tua presenza vicino a me è stata l’unica costante piacevolmente significativa della mia seconda vita.
Per questo ti sono sempre stato grato e lo sarò fino al mio prossimo ultimo respiro.
Non piangere, ti prego, la mia morte: è per me una liberazione e per il peccatore che sono stato il meritato castigo.
Tuo amico per sempre
Sergio
Isola di Gorgona, 3 maggio 2017
Fine
In copertina: Pablo Picasso – La Baignade (1937) – 129,1 x 194 cm. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia (Fondazione Solomon R. Guggenheim, New York)