- Continui pure, professore.
Disse Severgnini.
Continuai.
- La mia vita era, in quel periodo, totalmente dedicata alla venerazione del ricordo di Luisa, alla totale cura di mia figlia…
- Come si chiama sua figlia?
- Si chiama Silvia, come sua nonna. Io e Luisa la chiamavamo Sylvie e Sylvie la chiamano tutti, da allora.
- Bel nome!
- A noi piaceva, a me a a mia moglie, intendo dire. – precisai – E così dedicavo tutto il tempo libero alla mia bambina e tutto il resto del tempo all’insegnamento e allo studio. In quegli anni ho preso anche le lauree in filosofia e in lingua e letteratura tedesca e proprio in quegli anni cominciai ad insegnare l’inglese e il tedesco alla mia bambina. Credo che la sua passione per i popoli nordici sia cominciata a quel tempo… Sono stati anni molto duri, perché una mamma è insostituibile per ogni bambino. Io ci misi tutte le mie migliori energie. Sylvie, che era una bambina dolcissima, delicata, sensibile e straordinariamente intelligente, è cresciuta però, nonostante le mie continue attenzioni, con un velo cupo sul suo capo. Difficilmente ho visto la felicità libera e spensierata nei suoi occhi e sul suo volto. Crescendo è diventata, progressivamente, più dura. Dura e ribelle. Ha cercato con forza e determinazione e rapidamente ottenuto la sua propria indipendenza. E presto, troppo presto per me, ha lasciato la nostra casa.
Sentivo, in quei momenti, una forte commozione nel rievocare questi ricordi e pensaì che questi filoni di dolore, così marcati e profondi, potessero essere le radici nascoste della mia rabbia e della mia violenza mai esplosa prima.
Severgnini provò allora a condurmi nel presente.
- Professore, cosa le è successo, stanotte?
Domandò.
- Un attimo dottore – risposi con fastidio – mi lasci per favore il tempo di raccontare ciò che è necessario. Devo scavare ancora dentro i miei ricordi. Poi le dirò tutto di questa notte.
- Prosegua allora, professore…
In quel momento si sentì bussare alla porta.
- Vieni Baldi.
Disse Severgnini, avendo intuito che si trattava del collega di ritorno dal bar.
Fui felice, nascostamente, di questa pausa.
Il poliziotto aprì la porta usando il gomito ed entrò con entrambe le mani occupate dai due bicchieri con caffè e cappuccino, da due bottigline di acqua e dal sacchetto di carta bianca contenente la brioche. Depositò il tutto sulla scrivania dell’ispettore e si allontanò accennando ad un saluto.
Severgnini bevve rapidamente il suo caffè, tirò giù un sorso d’acqua e approfittando della mia lentezza si prese una breve pausa.
- Professore, faccia la sua colazione con calma. – mi disse – Torno tra pochissimo.
Si alzò e uscì.
In realtà rimasi molti minuti da solo nella stanza di Severgnini.
Era una tipica stanza di commissariato con tanto di calendari, gagliardetti e crest araldici militari in legno di noce appesi alle pareti. Sul tavolo c’era un fermacarte in metallo smaltato, anch’esso con impresso lo scudetto della polizia di stato e con scritta su nastro stilizzato “Svb Lege Libertas”.
Sulla scrivania inoltre erano ben disposti un sottomano, un portapenne, un tagliacarta, un portalettere e un portanotes tutti rigidamente in finta pelle nera e con rifiniture metalliche argentate.
Alle spalle della scrivania un grande armadio libreria in legno scuro conteneva fascicoli, raccoglitori, e qualche libro.
Tutto era perfettamente in ordine, il che confermò la mio opinione su Severgnini come uomo assolutamente razionale, metodico e affidabile.
Fine Parte Terza – Continua
In copertina: Carlo Carrà, Veliero e molo – 1930 – olio su tela, 32×45 centimetri