Passato ancora qualche minuto decisi di cominciare il mio racconto.
- Com’è noto, Ispettore – dissi – io sono rimasto vedovo molto presto, circa venti anni fa. Mia moglie, che aveva quattro anni meno di me e che ne mostrava ancora meno, annegò all’Isola d’Elba in un brutto pomeriggio di luglio. Mi lasciò una figlia di sei anni che ha vissuto con me fino a cinque anni fa, circa, e che poi si è trasferita a Berlino e successivamente a Stoccolma… La sento oramai ogni tanto, praticamente non scende quasi più in Italia. Ha una figlia e un marito svedese.
- Mi dispiace.
Aveva commentato Severgnini senza modificare la sua espressione da poliziotto.
- E di cosa?
Domandai, con atteggiamento provocatorio.
- Che non vede sua figlia.
- La vedo. Ogni tanto. Su Skype…
- Prosegua.
Severgnini probabilmente aveva capito che l’avrei tirata per le lunghe e, con molta pazienza, si era predisposto ad ascoltarmi senza mettermi premura.
- Negli anni immediatamente successivi alla morte di Luisa, mia moglie, non ho più avuto relazioni, neanche occasionali con altre donne. Credo, se non ricordo male, di esserle rimasto fedele per almeno dieci anni, dopo la sua morte voglio dire…
- Era stato un grande amore.
- Ero convinto che sarebbe rimasto l’unico amore vero della mia vita. E, alla fine dei conti, oggi posso dire che effettivamente così è stato.
- Ha sofferto molto.
Si, ma chi è che non soffre vivendo? – replicai – Io ho sofferto certamente molto più di altri che hanno avuto la fortuna di non vivere tragedie come la mia. Chi non le vive non conosce questo livello di sofferenza, questo strazio di dolore. Le persone meno sfortunate di me non sanno come sono tutte le notti della vita successive alla tragedia… Notti che non passano mai. Così chiunque è autorizzato a pensare di provare dolori tremendi anche se in realtà sono dolori ordinari, perché non li conosce, i dolori veri. Ma, comunque sia, io non ho mai amato farmi compatire. Ho sempre rifiutato con decisione il ruolo del povero uomo che ha perso presto la giovane moglie.
Severgnini mi fermò con un gesto delicato e compassionevole della sua mano; non aveva ancora capito cosa lo stava aspettando.
- Professore, vuole un caffè?
Chiese.
Ci pensai un attimo rendendomi conto che avevo fame e sete: la notte appena passata, oltre che faticosa ed emotivamente distruttiva, era stata infinitamente lunga.
- Si, grazie – risposi – se non è troppo disturbo vorrei anche un bicchiere d’acqua naturale e qualcosa da mangiare.
- Una brioche?
- Si, una brioche e un cappuccino, non un caffè. Se è possibile.
- Certo – rispose l’ispettore – abbiamo il bar a cinquanta metri da qui.
Severgnini si rivolse verso la vetrata:
- Baldi, per favore, puoi fare una corsa al bar? – domandò – Per me un caffè e una bottiglia d’acqua gassata, grazie.
Il collega fece un cenno di assenso ed sparì velocemente.
* * *
Fine Parte Seconda – Continua
In copertina: Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi – 1890 – olio su tela, 50×100,5 cm, Van Gogh Museum, Amsterdam.