IL GIORNO DELLA MIA FOLLIA
Memoria scritta da Sergio Barsanti riguardo ai delitti da esso compiuti.
Marzo 2014
Molti avvenimenti hanno determinato improvvisi e spesso drammatici stravolgimenti nella mia vita di piccolo studioso e modesto insegnante.
Una vita nella quale risaltano numerosi e lunghi anni di esistenza serena e senza grandi problemi, di innumerevoli e piacovolissime ore dedicate allo studio prima e allo studio e all’insegnamento poi e almeno dieci anni di amore completo e ricco di tenerezza e tepore con la mia fidanzata, diventata poi moglie e successivamente con mia moglie e la mia meravigliosa figlia.
Poi, era il 1992 ed io avevo trentacinque anni, tutto inaspettatemente e terribilmente si fratturò provocando una slavina di dolore che si propagò a lungo nel tempo e che si placò, dopo tutto aver distrutto, soltanto ventuno anni dopo: nella notte tra il 12 e 13 aprile del 2013.
Appunto di quella notte voglio rievocare e lasciare la mia memoria: perché serve al mio animo e perché potrebbe servire ad altri, da monito ed esortazione.
Queste poche pagine sono così il resoconto, filtrato dalla mia mente, di quanto avvenne in quelle tragiche ore e di quanto io confessai spontaneamente all’ispettore Severgnini immediatamente dopo i fatti.
Da tempo non ero più un ragazzo, ero un uomo che aveva da poco compiuto cinquantasei anni.
Quella mattina ero evidentemente stanco e provato, i miei capelli radi, appena brizzolati e di buona lunghezza erano spettinati e il mio vestito e la mia camicia, come sempre di ottima fattura, erano anch’essi assai gualciti.
Qualcuno che si fosse avvicinato abbastanza a me, avrebbe potuto percepire il forte odore del mio sudore notturno oramai asciutto sulla pelle e sugli indumenti.
Avevo deciso, intorno alle sei e trenta del mattino, di recarmi spontaneamente al commissariato di Forte dei Marmi, non tanto perché preso da moti di pentimento o per cercare di mitigare la mia posizione giudiziaria, che era indiscutibilmente di gravissima e indiscutibile colpa, ma per evitare l’inutile fatica della costruzione di una improbabile mistificazione dei fatti e il senso del ridicolo che avrebbe potuto assumere un tardivo tentativo di attribuire ad ignoti, altri da me, i reati che avevo commesso nella notte appena passata.
Non erano ancora le sette quando mi trovai seduto di fronte alla scrivania dell’ispettore Severgnini che mi guardava con aria stupita, rammaricata e dispiaciuta insieme.
Severgnini era di una quindicina di anni più giovane di me, lo conoscevo da tempo perché avevamo avuto modo più volte di incontrarci a diverse cerimonie, eventi, manifestazioni o, per qualche banale motivo, presso il liceo scientifico dove io, fino a quella mattina, avevo insegnato fisica e matematica.
Più volte avevo avuto modo di osservare e, entro certi limiti, apprezzare la sua rigida professionalità e il suo modo elegante di indossare il suo ruolo di servitore dello Stato.
Avevo incontrato proprio lui nel corridoio del commissariato quando, quella mattina, dopo aver suonato il campanello, essermi fatto riconoscere, aver atteso l’apertura automatica del cancello d’ingresso, aver attraversato lo spoglio giardino, aver salito cinque gradini, avevo superato la porta d’ingresso ed ero entrato nell’edificio.
- Professore, cosa le è successo?
Mi aveva domandato l’ispettore con tono allarmato poiché mi aveva visto ridotto in uno stato nel quale mai mi era capitato di essermi trovato prima.
- E’ una storia lunga e non bella – avevo risposto – Sono venuto da voi per una deposizione spontanea.
- Prego si accomodi in questo ufficio. La raggiungo subito.
Aveva detto, mentre apriva una porta di legno scuro e mi indicava dove andarmi a sedere.
Severgnini si era poi allontanato velocemente e dopo pochi secondi era tornato anche lui nella stanza dove mi aveva fatto entrare e si era a sua volta seduto di fronte a me.
Nel frattempo due altri poliziotti si erano preparati ad ascoltare il nostro colloquio, posizionati nella stanza attigua dietro ad una grande parete di vetro.
Contrariamente da quanto si vede nei film il vetro non era oscurato, ma perfettamene trasparente e, questo, ovviamente mi consentiva di osservare tutti e tre gli agenti di polizia che si accingevano a raccogliere le mie dichiarazioni.
- Vede i due colleghi dietro al vetro? – mi informò l’ispettore – Se lei è d’accordo, quando inizierà la sua deposizione, cominceranno a registrare.
- Sono d’accordo.
Dissi.
Dettate le mie generalità mi trovai nella difficile situazione di raccontare la brutta, orribile vicenda di cui ero stato protagonista, ma a cui non ero ancora riuscito a dare ordine e della quale, per quanto fosse avvenuta pochissimo tempo prima, avevo il concreto timore di aver perduto buona parte della memoria.
Fu così che per prendere tempo e per avere modo di ricostruire con ordine l’andamento dei fatti e delle emozioni decisi di cominciare il mio racconto prendendola alla lontana
- Mi dica Professore.
Aveva detto, qualche minuto prima Severgnini abbandonandosi poi ad un paziente silenzio in attesa che io riuscissi a trovare le prime parole per raccontare il motivo della mia deposizione spontanea.
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Fine Parte Prima – Continua
In copertina: Edvard Munch, Il bacio con la finestra – 1892 – Olio su Tela. 73cm x 92cm. Galleria Nazionale di Oslo.