TRE
Oggi credo che ci voglia per il PD una totale palingenesi, una rigenerazione che lo faccia cenere prima di farlo rinascere!
Non basta ragionare di questioni di genere o generazionali, sono convinto che nello stato in cui siamo non siano queste le priorità e le soluzioni.
I giovani che rottamano i vecchi hanno un successo che dura se si chiamano Alessandro Magno o Napoleone, ma se sono comuni esseri umani per avere risultati che siano durevoli nel tempo devono dimostrare pazienza, costanza, perseveranza, dedizione e tanta voglia di sudare.
Non basta, in questa situazione appellarci ai sindaci del PD o civici, come propone Nardella, che siano: non è con le generalizzazioni che usciremo da questo disastro e neanche ci riusciremo con pseudo leader che per stare a galla hanno veleggiato negli ultimi venti anni da una leadership all’atra tra tutte quella che hanno condotto il PD alle secche attuali.
Ritengo che un partito che vuole governare una nazione e contribuire a governare un continente debba piuttosto imporsi adeguati sistemi di formazione e crescita dei propri militanti di base e di progressiva riconoscibilità e valorizzazione delle reali qualità, rettitudine, competenze e meriti.
Un partito non liquido, non gassoso, ma piuttosto plastico e magmatico deve dotarsi di classi dirigenti capaci di scegliere i migliori e magari i più scomodi, non i più comodi, utili e maneggiabili: anche questo malcostume dovrebbe finire.
Poi ci sarebbero i contenuti: noi dobbiamo tornare ad essere popolari. Negli ultimi anni, nella foga di combattere il populismo, siamo apparsi a milioni di persone quelli che combattevano contro il popolo.
Ma le forze progressiste senza il popolo non sono niente!
Noi dobbiamo essere il popolo e sentire ciò che il popolo sente. E il popolo sente sulla pelle che dall’inizio del nuovo secolo il mondo è diventato più ingiusto e meno sicuro, che il futuro mette angoscia, che i ricchi sono più ricchi e i poveri sempre più poveri e che anche il ceto medio ha l’acqua alla gola.
Il popolo ha in larga parte perduto la coscienza dell’utilità della solidarietà e della cura degli altri, ha più paura di prima e vede il prossimo come un nemico e un potenziale usurpatore dei propri beni.
Negli ultimi anni siamo riusciti a strappare alcune vittorie elettorali grazie alla demonizzazione del nemico, ma questo oggi non basta più.
I nostri valori antifascisti sono diventati per molti una fastidiosa scusa retorica, una cantilena insopportabile perché li abbiamo progressivamente ridotti da sostanza, emblema, monito e riferimento in stanca e ripetitiva liturgia.
L’elettorato si è disamorato e ha smesso di credere nel futuro e si è ritirato nel privato cercando di proteggere le proprie cose e affetti da ogni pericolo esterno vero o presunto che fosse.
A noi, nel frattempo viene addossata la colpa di esserci trasformati in élite privilegiata, priva di generosità e soltanto dedita alla conservazione dei propri privilegi.
Veniamo percepiti così perché ad ogni piega della storia recente noi non siamo mai stati quelli che volevano cambiare, svoltare, andare oltre, trovare nuovi orizzonti.
No!
Noi siamo stati sempre quelli che volevano “aggiustare” l’esistente, quelli che indicavano una minaccia, un pericolo, un’emergenza a cui si doveva mettere mano con sacrifici, rinunce, senso di responsabilità, realismo.
Ma alla fine di ogni emergenza il popolo si ritrovava più povero, con peggiori servizi pubblici, più preoccupato, con diritti sociali compressi e con la natura e l’ambiente sempre più saccheggiate.
Il popolo se viene costantemente condotto a combattere guerre dalle quali esce sempre più malconcio alla fine rovescia il governo, come capitò esattamente un secolo fa. E allora sono guai.
Noi abbiamo allontanato da noi, commettendo un gravissimo errore epocale, le idee rivoluzionarie (attenzione dico le idee rivoluzionarie, non le rivoluzioni) e ci siamo accontentati di andare con il cacciavite a regolare il capitalismo italiano e internazionale cercando di umanizzare i suoi tratti più brutali e con ciò ci siamo fatti establishment, sistema e potere.
Ora vero che non è più il tempo di impugnare la falce e il martello, ma non si può neanche pretendere di attribuire la medesima forza evocativa all’anima e al cacciavite, almeno non nell’immaginario delle persone che sono in grave difficoltà.
Dirò di più: una sinistra che ambisca ad diventare riconoscibile e autorevole non può lasciare al solo Papa di Roma il compito di esercitare una profonda critica al sistema capitalistico e l’ambizione di sollevare una giusta aspettativa per il futuro di un mondo migliore e più giusto.