XVI
Disteso sul letto della sua camera d’albergo, il volto immerso nella penombra appena rischiarata dalla tenue luce di una lampada da tavolo, gli occhi chiusi sul mondo esterno e spalancati sulla sua vita passata, Omar tornò indietro nel tempo e, librandosi nello spazio della mente, naufragò fino alle terre lontane della sua giovinezza.
Non voleva farlo, avrebbe voluto rifiutarsi.
Cercò disperatamente di sollevarsi, di pensare ad altro, di riportare la propria mente alla gestione degli affari attuali, ma era tardi.
In quella notte così speciale Omar aveva, ormai, ceduto il controllo del proprio spirito e non poteva fare altro che assistere, da spettatore, alla rappresentazione del proprio tempo andato.
Si rivide, allora: giovane e forte, ricco, alto e moro, affascinante, prepotente, insolente e colto, spregiudicato e affamato di piacere.
Ecco, si vedeva, forse, adesso, per la prima volta; forse solo ora così nitidamente: splendido sposo di strabiliante fanciulla.
E lei: la sposa ragazzina, rubata alla famiglia, alle amicizie, alle gite in bicicletta e sul mare, alla naturale spensieratezza per farne la donna più ammirata della città, per recarle in dono feste e serate di gala, per sfoggiarla come bene prezioso e di lusso, era ingenua e fresca e viveva con un vuoto dentro e viveva con la nostalgia della sua ingenua, fresca giovinezza non compiuta…
Omar le aveva dato tutto, ma si era dimenticato di donarle l’anima…Omar amava se stesso, il proprio mondo, le proprie manie, i propri vizi
Aveva colto il fiore più bello,
appena sbocciato,
e se l’era infilato all’occhiello
del vestito più bello
per fare se stesso più bello
col fiore più bello.
Certo di dare amore,
amor succhiava
e cose misere, e preziose,
donava.
E mai chiedeva,
mai domandava
se, lì nell’occhiello,
era felice
il fiore più bello.
Julia… Julia… Julia, quel none mai più pronunciato, mai più neanche pensato, gli tornò sulle labbra col sapore del sangue: una ferita, un dolore, un tremito del cuore.
Julia, spesso, lo guardava negli occhi, con dolcezza rassegnata e, muta, chiedeva aria, libertà, respiro.
Lui non capì mai quel grido sordo, quell’anelito di futuro.
Fino alla maledetta sera…
Julia, la sposa ragazzina, non aveva ancora vent’anni:
“Perché non resti con me? – gli chiese – Mi sento sola, ho nostalgia, resta a casa, stasera, amore.
E’ così grande questa casa… resta, ho bisogno di te.”
Disteso sul letto di quell’anonima camera d’albergo, gli occhi stretti, l’urlo serrato in gola, Omar si sforzò, senza riuscire, di ricordare perché quella sera doveva per forze uscire…
Vestito di tutto punto, lustrato e profumato, le lasciò un bacio, quasi distratto sulle labbra:
“Non fare la bambina – le disse – sai che non posso restare. Non stare sveglia ad aspettarmi, temo che farò tardi.”
Julia insisté, a lungo, fino alle lacrime perché lui restasse.
Lo chiamò fin sul portone d’ingresso, in fondo alla grande scalinata di marmo, gli gridò dietro con quella voce strozzata, di gola, che hanno le donne quando sono disperate:
“Non andare… perché te ne vai, se mi ami. Ho bisogno di te.”
Omar salendo sulla macchina la vide, con la coda dell’occhio, appoggiata al portone che si teneva il volto con le mani.
Mise in moto e partì.
Da quella volta non la vide più.
Sdraiato su un fianco, le gambe piegate, le ginocchia vicine al petto, le mani intrecciate, strette sulle caviglie Omar sentiva forte il bisogno di gridare e piangere, ma non voleva cedere al dolore. Vedeva le proprie difese crollare e si opponeva alla disfatta con tutte le forze.
“Non so dove sia… – pensò – …non so che fa… non riesco a ricordare il suo volto… non so neanche se sia ancora viva.”
A lungo, dopo la scomparsa di Julia, si era sentito vicino alla caduta, prossimo alla follia, ad un passo dall’autodistruzione e si era salvato solo quando era riuscito a rinunciare totalmente ai sentimenti, alle emozioni.
Solo, chiuso ermeticamente in se stesso, raccolto in un guscio impermeabile e resistente, aveva lasciato fuori il mondo concedendosi soltanto una sterile finestra da cui poterlo guardare senza esserne contaminato.
Certo frequentava persone, viaggiava tantissimo, lavorava, faceva affari, vedeva luoghi, raccoglieva sensazioni, ma non era mai più stato contagiato dal mondo esterno: ogni contatto era mediato, filtrato dal suo intelletto che riusciva ad ostruire ogni canale che avesse potuto trasformare il suo vivere in emozioni o passioni.
La sua vita era divenuta pura e semplice esistenza, una frequentazione sulla terra.
La sua salvezza, la sua liberazione dal dolore era stata la rinuncia, totale, alla sensibilità interiore: eliminato il piacere, eliminati i sentimenti e le passioni era riuscito anche a far sparire il dolore o, almeno, a rinchiuderlo in una profondissima segreta.
Quiete, assenza, insensibilità: erano state queste le sue ancore di salvezza.
Ma, ora, la morte enigmatica di Giuseppe e, più ancora, l’inattesa, commossa, intensa partecipazione al dolore di Elettra avevano scosso la sua esistenza, lo avevano travolto distruggendo i bastioni tanto faticosamente eretti e lasciando la cittadella della sua anima indifesa nelle mani arroganti, insaziabili, violente e vendicative dei sentimenti.
Già, i sentimenti, la vita, le emozioni… dopo anni e anni di attesa, avevano aperto un varco e, adesso, prendevano la loro rivincita, adesso avevano partita vinta!
Omar sudava, disteso sopra le coperte, come si suda quando si è presi dall’angoscia di voler riparare, subito!, al tempo sprecato, quando si è presi dalla smania di recuperare il tempo che abbiamo vissuto sbagliando e come si suda, gelando, quando ci si rende conto che ciò non è affatto possibile, che non ci è data un’altra opportunità e la disperazione ci prende alla gola e l’impotenza ci soffoca.
Omar sudava, disteso sopra le coperte, e moriva di freddo e non trovava la forza e la lucidità di coprirsi, o di alzarsi, di uscire per recuperare il controllo del proprio corpo e della propria mente.
Omar sudava, disteso sopra le coperte, e, immobile, provava odio e risentimento verso se stesso per aver ceduto così improvvisamente, per aver mancato all’impegno che aveva preso con la propria vita. Provava odio verso se stesso perché si rendeva, finalmente, conto di aver vissuto inutilmente, di aver distrutto tutto quello che di buono gli era capitato: per egoismo, approssimazione, superficialità, stupidità, arroganza.
Il Tempo aveva preso a muoversi con estrema lentezza, Omar sentiva il battito del proprio cuore rimbombare nella stanza muta e il Tempo, cattivo, rallentava i passi e cullava la sofferenza del povero uomo che, lo sguardo rivolto verso la finestra chiusa, implorava di veder spuntare la luce del giorno…
Ma la notte non cedeva e le immagini sfocate o troppo accese ed i pensieri e le angosce si rincorsero a lungo nella mente squassata di Omar: per lunghi secondi e minuti e ore finché egli non cadde come svenuto, sopraffatto dal dolore e dalla stanchezza.
Vinto, sconfitto, annientato dopo una coraggiosa, inutile battaglia durata vent’anni.
Nella nebbia, nel coma della notte, prima di abbandonare i sensi, capì che non avrebbe avuto salvezza, che non avrebbe più avuto possibilità di fuga perché i fantasmi del passato tornano: sempre…
Fine Capitolo XVI – continua