V
Anselmo piangeva.
Anselmo, il barista, era al suo posto, dietro il bancone di legno e piangeva.
Era alto e grosso e grandi lacrime gli rigavano il volto.
Aveva una faccia che, sotto ad un folto barbone nero e grigio e alle rughe dei cinquant’anni, continuava a tradire l’indole di ragazzotto ingenuo e troppo sensibile.
Anselmo, fin da ragazzino, era stato il migliore amico di Giuseppe: si volevano bene, si completavano.
L’uno astuto, intelligente, scaltro, trascinatore; l’altro forte, altruista, coraggioso, focoso e romantico al tempo stesso.
Era dalla mattina che ripeteva le solite frasi:
“Non è giusto…non è giusto…”
“Dai – gli disse un cliente – cerca di reagire, se non per te, fallo almeno per il tuo amico.”
“Non ce la faccio! Sono più di quarant’anni che lo conosco: abbiamo fatto le stesse scuole, abbiamo frequentato le stesse ragazze…”
“Sembravate così diversi.”
“Siamo diversi: lui aveva un’altra storia, io sono figlio di operai, di povera gente, ma tutti e due, fin da bambini, avevamo la stessa idea in testa: volevamo far sparire i borghesi e, insieme a loro, gli operai. Noi volevamo far nascere una nuova classe di pari, eguali, liberi e felici.”
L’altro sorrise:
“Ancora questa storia? Non mi pare che siate andati molto lontano.”
“No, è vero, non siamo andati lontano. E la vita ci ha allontanato… ma siamo rimasti più che fratelli, sempre: nella gioia e nel dolore. Anche quando ci trovavamo a migliaia di chilometri di distanza, chi di noi due aveva bisogno di un consiglio, di una parola d’aiuto telefonava all’altro. In ogni momento. Io ho conosciuto tutti i suoi pensieri, tutti i suoi sentimenti. E lui i miei.”
L’interlocutore buttò giù le ultime due dita di vino bianco, schioccò la lingua:
“Certo, i suoi sentimenti li avrai anche conosciuti – disse il cliente – ma gli affari? Dei suoi affari ti ha mai raccontato nulla?”
“Non mi ha mai mentito, se e questo che vuoi sapere! E se non mi ha detto qualcosa, se si è tenuto qualcosa dentro, certo l’ha fatto per non ferirmi, per non dirmi cose che non avrei capito, per salvare la nostra amicizia.”
L’uomo si era fatto riempire un altro bicchiere e altri si erano avvicinati per seguire la scena: appena defilati, un passo indietro, leggermente di sbieco, ma molto attenti allo svolgimento della discussione: l’argomento e i protagonisti erano di quelli per cui non si poteva prevedere la fine.
“Senti – riprese l’avventore – a me non va di parlar male di chi non può difendersi, tanto meno dei morti. Però non dovresti continuare a dire cose che offendono l’intelligenza. L’amicizia… il silenzio… non avresti capito. Apri gli occhi: quello non era come te! Quello si era buttato dietro i furori giovanili e pure Marx e Lenin. Quello si era anche dimenticato di avere un cuore e dei sentimenti: lui lottava per i soldi e per il potere…”
“Finiscila.” Sibilò Anselmo.
“…un giocatore d’azzardo, ecco!, un giocatore d’azzardo di un gioco dove solo il più furbo e il più forte, il più cattivo e il più scaltro possono vincere. E per chi perde non c’è pietà… non c’è più neanche vita.”
Anselmo servì un caffè, tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e si asciugò gli occhi.
Non aveva voglia di lottare.
“Se stai così male – disse uno per sbollire l’ambiente – perché non chiudi e te ne vai a casa?”
“No! Resto qui, al mio posto di osservazione. – rispose Anselmo tirando su col naso come un bimbo – C’è gente, oggi, che se la gode: tutti gli invidiosi e le malelingue. Io li voglio vedere. Saltano fuori nel momento della disgrazia: fino a ieri erano tutti sorrisi e inchini e, ora, sputano veleno, ma devono sapere che io li osservo! Poi faremo i conti.”
“Te sei matto da legare.”
“Sono matto perché mi si è spezzato il cuore. E’ come se fossi morto anch’io stamani, la storia della mia vita è morta… – parlava a se stesso, non gli fregava più niente di quei pochi curiosi che lo stavano a sentire e magari, in cuor loro, godevano della disgrazia di quell’uomo così potente e discusso – mi tornano in mente un mucchio di cose che abbiamo fatto insiema, mi ricordo gli scherzi e le battute…mi ricordo le risate e le botte che gli ho dato quando mi prendeva in giro.
L’ho pestato, l’ho pestato un mucchio di volte: una volta se non mi fermavano l’avrei ammazzato perché, in campeggio, in montagna, m’aveva fotografato mentre cacavo dietro a un castagno. Porca Eva com’ero arrabbiato… ho sempre la foto a casa.
Davvero – sorrideva come se l’avesse davanti agli occhi, sorrideva d’un sorriso malinconico- gli volevo bene, facevo tutto quello che mi diceva. Avrei fatto qualsiasi cosa se me l’avesse chiesto. Se c’era casino, ai cortei, alle assemblee e qualcuno rompeva, bastava che mi guardasse e io: giù botte.
Come ci siamo divertiti!
Una volta i fascisti ci hanno aspettato, al buio, saranno stati in sette, otto e ce l’hanno date: da morire. Io ho fatto due giorni di ospedale, lui due settimane… la sua mamma gli aveva preso la camera a pagamento…”
L’altro, il tizio polemico si era messo a sedere di fronte ad Anselmo, un nuovo bicchiere di bianco sul tavolo, le gambe accavallate, la sigaretta in bocca, di lato, scuoteva la testa:
“Sono storie vecchie, di più di vent’anni. – disse – Ma oggi? Tu sei qui a fare il barista e lui stava con i potenti, con i corrotti, con i ladri. Lui aveva cambiato ambiente e bandiera, non te sei ancora accorto?”
“Non è così – protestò il Anselmo – non è affatto così: lui aveva capito che non era possibile sconfiggere il sistema e cambiare questo tipo di società, aveva capito che la rivoluzione non era alla portata dei nostri tempi e, così, ha deciso di buttarsi in mezzo alla corrente, di mettersi alla prova per vedere di cosa era capace…”
“L’abbiamo visto: era capace di arraffare, di imbrogliare come i suoi pari: alla faccia di chi lavora e non ce la fa a tirare avanti…”
“Non capisci, non è questo il punto. Lui viveva per sfidare, per conoscere i propri limiti e per infrangerli. Lui voleva andare oltre, sempre, ad ogni costo…”
L’avversario si era di nuovo messo in piedi, aveva spento la sigaretta e, avvicinatosi al bancone, si era piazzato con il viso sul viso di Anselmo:
“Tu stai solo facendo della poesia, ti prendi in giro da solo! A me pare che il tuo amico fosse solo un banale opportunista, uno che pensa soltanto agli affaracci suoi. Uno che con i principi morali, con gli ideali ci si è pulito il culo. Un volgare fuorilegge!”
“Ma che ne vuoi sapere te! Beppe conosceva benissimo la distinzione tra il giusto e l’ingiusto solo che aveva preso atto dell’impossibilità della vittoria del giusto. Aveva capito che vince solo chi ha la capacità, la forza, l’intelligenza di andare oltre le regole. Aveva capito che solo su quel terreno si poteva avere la possibilità di non restare schiacciati e, allora, aveva deciso di giocare la sua partita alla grande: com’era nel suo carattere. Questo non significa che lui condividesse questo stato di cose e, soprattutto, non vuol dire che nei rapporti personali, diretti non fosse rimasto quello che era da ragazzo: un uomo buono e disponibile fino all’estremo, un generoso. Voi tutti lo sapete: io questo bar ce l’ho grazie a lui!”
“Si la conosciamo la storia: quando sei tornato fuori ti sei trovato il bar pronto e intestato…”
“Appunto, questo ti dimostra che uomo era! Ma che m’importa, che mi frega di stare a parlare con te… tieniti le tue idee, le tue meschinità, ma, per favore, lasciami in pace.”
Anselmo girò dietro il bancone, attraversò il locale e uscì fuori, si appoggiò allo stipite di marmo della porta e respirò l’aria frizzante di quel pomeriggio di primavera.
Il sole, con tenerezza, lo scaldava in viso.
La piazzetta, davanti al bar, coperta da un pergolato innalzato su colonne di legno, che nei pomeriggi e nelle sere d’estate si riempiva di clienti rumorosi, era ora deserta.
Le foglie, sui tralci, erano appena mosse da delicati soffi di vento.
Un gatto rosso dormiva, abbandonato sopra una sedia impagliata.
Anselmo respirò di nuovo, profondamente, e per la prima volta nella sua vita capì che la gioventù può anche finire e di questa fine ne assaporò il gusto malinconico e grigio.
Fine Capitolo V – continua