di Ettore Neri e Franco Pucci – Celebriamo oggi i cento anni dalla nascita del Partito Comunista d’Italia, da quel 21 gennaio 1921 che sancì, a Livorno, la scissione dal Partito Socialista Italiano nel corso del suo XVII Congresso e la costituzione del Partito Comunista d’Italia.
Il PcdI è stato da sempre e da molti ritenuto una nascita “sbagliata”: un bimbo nato da una madre esausta, il vecchio PSI riformista di Turati, e da un padre autoritario e assente, il comunismo bolscevico, che questo bambino non ha mai amato, né apprezzato, di cui non si è mai fidato e con cui non è quasi mai andato veramente d’accordo.
La frattura tra socialisti riformisti, socialisti massimalisti e frazione comunista del PSI si consumò a causa della incapacità di tutti di leggere e interpretare il fenomeno rappresentato dalla forza e violenza crescente dei Fasci italiani di combattimento che il quello stesso 1921, il 9 novembre, avrebbero dato vita al Partito Nazionale Fascista.
Il paese era sconvolto da ondate di violenza crescenti e dallo sfaldamento del vecchio modello di potere liberale e oligarchico impersonato dall’ormai anziano Giovanni Giolitti.
In meno di un anno i “selvaggi” fascisti travolsero tutti e giunsero a compiere l’azzardo della Marcia su Roma: un grottesco tentativo di colpo di stato messo in atto da improbabili attori che giunse a compimento grazie alla complicità del Re, di liberali e democratici, di proprietari terrieri e industriali, tutti uniti e tutti terrorizzati dal pericolo di una annunciata e imminente rivoluzione bolscevica in Italia.
In realtà, come è stato ampiamente dimostrato, la rivoluzione bolscevica non era affatto alle porte per l’Italia perché nessuno, tra i presunti rivoluzionari rossi, aveva la benché minima idea di come questa di sarebbe potuta e dovuta attuare.
Fu così che nel giro di pochi anni i più noti capi antifascisti vennero incarcerati, confinati, costretti alla fuga dall’Italia o barbaramente assassinati: come agnelli sacrificali andarono incontro al loro drammatico destino, quasi senza reagire, senza combattere, indifesi, e alcuni addirittura passivamente aspettando un intervento salvifico del Re a bloccare la realizzazione della dittatura fascista, intervento che, naturalmente, non giunse mai.
Il nascente fronte antifascista era allora composto ai suoi vertici da intellettuali, giornalisti, idealisti, visionari incapaci di scontrarsi e resistere contro la violenza e la determinazione fascista, protetta fin dalla Marcia su Roma dall’esercito e dalle forze di polizia: ebbero così presto fine anche gli estremi, eroici tentativi di resistenza e autodifesa armata nelle città e nelle campagne tentati da militanti socialisti e comunisti e leghe operaie e contadine.
Dopo il Congresso clandestino di Lione del gennaio 1926 e la svolta impressa da Antonio Gramsci all’indirizzo politico, con il Partito Comunista d’Italia costretto alla clandestinità e Gramsci arrestato, processato, condannato e incarcerato praticamente fino alla morte, la storia dei comunisti italiani cominciò ad assumere i tratti epici di una resistenza oltre ogni limite e di una visione di un futuro possibile oltre la linea di caduta del regime fascista.
Il tutto senza dimenticare che nel campo del comunismo internazionale la follia stalinista opprimeva tutti e mieteva vittime al minimo sospetto: si doveva dunque sfuggire al fascismo, e al tempo stesso, da esuli in Francia o in Russia, sopravvivere allo stalinismo: tenere la fiammella della speranza accesa per quasi vent’anni e farlo mantenendo e allargando significative radici in patria fu un’impresa titanica.
Fu così che quel bambino nato da uno “sbaglio”, malgrado tutto, prese a crescere assai bene: coraggioso, indomabile, intelligente, volenteroso, laborioso, amato da molti perché generoso e forte, sempre più forte…
La storia del PCI durerà settanta anni e sarà caratterizzata nei suoi tratti più umani, umanistici e umanitari dalle figure dei due grandi sardi che saranno alla guida del partito sotto la dittatura fascista, Antonio, e nel periodo cupo del terrorismo e delle stragi tra gli anni settanta e la metà degli anni ottanta del Novecento, Enrico.
Antonio Gramsci e Enrico Berlinguer e, in mezzo a loro e con loro, tanti dirigenti di grandissimo spessore che contribuirono, nel tempo, a riconquistare la libertà, a difenderla, a consolidarla partecipando alla scrittura e all’approvazione della nostra Costituzione repubblicana e a scrivere le migliori pagine della nostra storia democratica all’interno di quell’insieme politico, civico e sociale che, a quel tempo, veniva chiamato “Arco Costituzionale”.
Il PCI come gli altri grandi partiti popolari della Prima Repubblica erano vissuti e animati da milioni di militanti che ne costituivano al tempo stesso i ricettori delle linee strategiche dettate dalla classe politica dirigente, i diffusori sui territori delle visioni politiche, ma anche costituivano la parte più viva e la massa militante e pensante di quell’intellettuale collettivo, individuato da Gramsci, in grado di esaminare, analizzare, rielaborare e indirizzare i sentimenti, i bisogni e le volontà delle cittadine e dei cittadini.
Soprattutto nei venti anni che vanno dal 1960 al 1980 le grandi conquiste dei diritti civili e sociali: l’imposizione di nuovi e più indipendenti stili di vita, l’emancipazione femminile, lo statuto dei lavoratori, solo per dirne alcuni, non uscirono da strategie dei vertici politici ma eruppero dal basso, dalla coscienza consapevole e dal volere delle masse popolari evolute.
Il grande sforzo del gruppo dirigente del PCI, a partire dalla “Svolta di Salerno” (aprile 1944) impressa da Palmiro Togliatti come strategia di superamento del fascismo e creazione del più ampio fronte possibile delle forze antifasciste: dai monarchici ai comunisti, fu quella di garantire all’Italia una propria via verso e dentro la democrazia e di intraprendere una costante marcia, lunga decenni, per raggiungere la totale indipendenza e distanza dal blocco sovietico.
Il PCI era in quegli anni un essere vivente e pulsante, un grande partito di massa e di popolo.
Non fu un processo facile, né lineare, né privo di drammatici errori (si pensi alla posizione presa dal PCI nel 1956 durante l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica), ma sempre seguì una direzione che tenne il più grande Partito Comunista dell’Europa Occidentale saldamente ancorato alla Costituzione Italiana e ai suoi valori e che lo portò progressivamente ad una visione molto vicina a quella delle più evolute espressioni della socialdemocrazia nord europea.
In questo tratto decisiva fu l’opera della segreteria di Enrico Berlinguer (1972-1984) che resta certamente il leader comunista largamente più amato da tutti gli italiani.
Personalmente appartengo a quella generazione che Pietro Folena aveva perfettamente definito come “I ragazzi di Berlinguer”: una generazione di giovani nati tra primi anni cinquanta e i primi anni sessanta che si avvicinarono alla politica e scelsero il Partito Comunista Italiano come loro casa anche, forse soprattutto, perché il segretario di quel partito era Berlinguer.
La strategia della “terza via” e la costante ricerca di un percorso “democratico” all’interno del quale collocare l’unicità e la diversità dei comunisti italiani che rifiutavano di ancorarsi in modo settario ai modelli del passato costituivano il nostro orizzonte, così come le grandi battaglie internazionali per la libertà e l’indipendenza degli Stati e dei popoli, per il superamento dell’oppressione e di ogni forma di colonizzazione, per il disarmo nucleare.
Diventammo pacifisti, ci schierammo contro l’uso della violenza in politica, comprendemmo le ragioni e le radici profonde della scelta del Compromesso Storico. Afferrammo il messaggio etico e politico della “questione morale” che per il nostro Segretario era il “centro del problema italiano”. Figure come quella di Aldo Moro e di Beniamino Andreatta alimentarono la nostra speranza di un’Italia migliore. Uomini come Sandro Pertini, che proprio Berlinguer aveva candidato alla Presidenza della Repubblica, con il loro senso dello Stato e la loro forte tensione ideale ci spingevano a credere nelle istituzioni.
In quel periodo Berlinguer dialogava con Willy Brandt e con Olof Palme ed era percepito universalmente come più vicino a loro che a Breznev o anche a Gorbacev.
Sul fronte nazionale il PCI e la CGIL avevano speso ogni energia nella difesa della democrazia rappresentativa contro gli attacchi eversivi delle destre neofasciste e degli apparati deviati dello stato, contro il terrorismo rosso e contro la criminalità organizzata e mafiosa.
Il prezzo di sangue pagato sul campo dai comunisti italiani fu enorme, basti ricordare i nomi di Guido Rossa e Pio La Torre, tra i tanti.
In quegli anni il PCI non era più percepito come un partito satellite della Terza Internazionale infiltrato nella democrazia italiana, ma come un pilastro fondamentale par la difesa della democrazia e della Costituzione del nostro Paese.
Questo fino a quando, nei turbolenti anni a cavallo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del secolo scorso, dopo la morte di Berlinguer e la malattia di Alessandro Natta, si consumò la fine di quel Partito del quale andiamo a ricordare, celebrare, riconsiderare criticamente il centenario dalla nascita.
Fu una fine, a mio giudizio, non dettata dalla necessità storica, ma più banalmente fu frutto del cedimento caratteriale e morale di un gruppo dirigente nazionale giunto quasi per caso a guidare un Partito troppo grande per le sue possibilità e capacità, avvenuto per di più in un momento in cui gli eventi della Storia prendevano a girare ad un ritmo vorticoso dopo la caduta del Muro di Berlino.
Improvvisamente la linea della sinistra italiana smise di guidarla il PCI e cominciarono a dettarla gli editoriali su Repubblica del liberale Eugenio Scalfari, mentre dall’altro lato le televisioni private di Silvio Berlusconi, sostenute da leggi costruite appositamente, attuavano la mercantilizzazzione delle menti degli italiani.
Il nuovo gruppo dirigente del PCI non ebbe il coraggio, la forza, la capacità intellettuale di reggere il timone che era stato lasciato da Enrico Berlinguer e fece l’unica scelta che poteva fare per garantire la sopravvivenza non del partito ma delle loro carriere politiche.
A trenta anni di distanza, continuo a pensare che la “Svolta della Bolognina” e le successive decisioni prese con il XX Congresso del PCI tenutosi a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991, quando il PCI deliberò il proprio scioglimento la contestuale costituzione delPartito Democratico della Sinistra, furono un cedimento alle pressioni esterne subite da un gruppo dirigente che aveva perduto coscienza e consapevolezza della propria storia.
E non è un caso che, in questi giorni si parli esclusivamente del 1921 e ci si dimentichi del 1991.
Lo scioglimento del PCI, messo in atto da un gruppo dirigente scadente e misero e attuato con la complicità dell’unico residuo sovietico ancora presente nel partito, cioè l’apparato burocratizzato dei funzionari, fu un tradimento nei confronti degli sforzi fatti da Berlinguer e con lui da milioni e milioni di militanti per trovare quella terza via che la realtà non negava aprioristicamente e che comunque venne e viene ancora a lungo ricercata e indagata nel mondo magari con nomi e contesti differenti.
Se nel 2020 il Papa con la sua ultima enciclica dichiarava che “la pandemia mostra prima di tutto il fallimento del modello capitalistico”, forse qualche domanda sulle scelte di trenta anni fa ce le dovremmo porre.
In realtà tra l’ottantanove e il novantuno la necessità tirare una riga con il passato e di avviare in modo netto una nuova fase storica avrebbe dovuto i protagonisti non a cambiare nome al Pci, ma semmai a ricomporre la frattura del 1921 e a ricostituire l’unità del campo socialista.
Ma anche in questo caso nell’improvvisato nuovo gruppo dirigente del PCI mancò il coraggio di fare i conti con il PSI di Bettino Craxi e prevalse l’istinto di salvare la pelle.
Tutto si risolse purtroppo nella mera questione nominalistica e nella conferma degli attori precedenti.
Il cambio del nome, per altro ripetuto successivamente più volte in pochi decenni: da Partito Democratico della Sinistra, a Democratici di Sinistra, a Partito Democratico mostra plasticamente come non ci fosse soltanto il bisogno di uscire dal comunismo, ma anche dal socialismo e come paradossalmente si fosse avviato un processo per annacquare e generalizzare la ben più complessa realtà della politica e del popolo degli elettori della sinistra italiana.
Curioso è anche il fatto che al Parlamento EuropeoIl Partito Democratico Europeo (PDE) è sia un’alleanza di partiti centristi che riunisce esponenti politici provenienti dall’area del cristianesimo sociale e del liberalismo sociale mentre il nostro Partito Democratico, come noto, aderisce all’Allenza Progressista dei Socialisti e dei Democratici.
Il cambio del nome, dicevamo, finì per sovrastare e mise in secondo piano l’analisi dei mutamenti in corso nel mondo e la ricerca dei contenuti, delle soluzioni, delle strategie per quel campo politico che avrebbe dovuto continuare ad essere quello della ricerca di un nuovo modello di convivenza sociale ed economica diversa da quella del capitalismo occidentale e del capitalismo di stato.
A mio giudizio è stato durante quel passaggio stretto, difficile, doloroso che si sono perduti i fondamentali punti di riferimento che i partiti dei lavoratori e dei contadini avevano ben prima della rivoluzione sovietica e a prescindere dai modelli realizzati di comunismo.
Mi riferisco non soltanto alla redistribuzione della ricchezza ma anche all’ipotesi di andare ad intaccare i meccanismi di mercato e anche l’inviolabilità della proprietà privata.
Ben lontani da questi obiettivi estremi invece i partiti eredi del PCI intrapresero negli anni Novanta una sorta di azione auto purificatrice e si immersero nell’ideologia liberale, quando non liberista, fino a divenire tra i più convinti promotori di privatizzazioni e liberalizzazioni e a creare strumenti normativi per la precarizzazionedel mondo del lavoro, con processo di progressiva diffusione della pratica dell’assunzione di lavoratori con contratti a tempo determinato e spesso senza alcuna prospettiva di stabilità o di carriera.
La totale deregolamentazione dei mercati internazionali, pochi anni dopo ha portato a quei disastri causati dalla globalizzazione senza regole che ha sottratto risorse e soldi ai popoli per consegnarle nelle mani pochi miliardari mondiali.
Nello stesso tempo non procedeva con la necessaria velocità la presa di coscienza dell’urgenza e dell’emergenza ambientale e della malattia del Pianeta.
Forse, cento anni dopo la nascita di quel bimbo sbagliato ma cresciuto così bene e dimenticato troppo in fretta, la sinistra italiana, non dico il Partito Democratico, la cui vocazione maggioritaria è frustrata e ha causati tutti quei danni che in pochi di noi avevano temuto e, purtroppo, previsto fin dal lontano 2007, ma mi riferisco a tutta la sinistra italiana dovrebbe procedere ad una nuova e generale catarsi e rigenerazione guardando al mondo di domani, che non dovrà e non potrà più essere quello degli ultimi trent’anni, e potrà farlo meglio se riprenderà a studiare il pensiero di Antonio Gramsci e a comprenderne il significato profondo e a sua attualità anche per il futuro.
Seravezza, 21 gennaio 2021