Presa la macchina, mi ero messo a studiare in quale ristorante l’avrei portata e avevo finito per prenotare nel più caro della zona.
Tanto finché non mi avessero tolto la carta di credito potevo permettermi qualsiasi cosa.
Avevo continuato a girare a vuoto per quasi tutta la mattina, incollato al volante; avevo macinato chilometri rimuginando su quella strana e decisa donna. Era stata decisa nell’accettare il mio invito, senza tentennamenti. Ma, allora, che rapporto aveva con il marito?
Avrei trovato anche lui la sera all’appuntamento?
Avrei saputo gestire una situazione imbarazzante?
Certo: ero un uomo di mondo, abituato a trattare con la gente anche nelle situazioni più improvvise e difficili.
Sul lavoro ero ritenuto uno molto in gamba, soprattutto per la mia capacità di inventare e gestire gli imprevisti.
E poi, in fondo in fondo, che avevo da perdere?
Si, dovevo prendere questa cosa alla leggera, con distacco e divertimento; con attenzione, ma senza impegno interiore, senza preoccuparmi troppo (anche sul lavoro facevo sempre cosi) e allora tutto sarebbe filato alla perfezione.
Sicuro, mi sarei affidato alla mia formula preferita: “In fondo, a me, che me ne frega?”.
In quel momento avevo dovuto fermare la macchina: davanti alla più importante industria di lavorati di marmi della zona: c’era la folla delle grandi occasioni ed era in corso una vera e propria manifestazione sindacale.
Bandiere e discussioni.
Agitazione ed eccitazione.
Erano anni e anni che io non sopportavo più la folla.
La folla è stupida, senza cervello e spesso senz’anima.
La folla non mi piaceva, qualsiasi cosa facesse e di qualsiasi parte fosse: negli stadi come ai cortei.
Non mi piacevano i tifosi e non mi piacevano gli esaltati e gli invasati; non non mi piacevano i manifestanti e i dimostranti: nel migliore dei casi erano strumento di qualcuno più furbo di loro, nel peggiore erano mossi da invidia sociale verso persone alle quali, in fondo in fondo, avrebbero voluto prendere il posto.
La folla mi appariva, comunque, pericolosa.
Razionalmente capivo, certo, che i miei erano pensieri corrotti ed egoistici e che i lavoratori devo pur manifestare per difendere i propri diritti, ma non avevo più fiducia in queste cose e comunque io me prevaleva allora l’egoismo individuale e l’indifferenza sociale.
Brutto da dirsi, ma vero: perseguivo esclusivamente il mio istinto animale di conservazione.
E il mio istinto mi diceva che dovevo assolutamente diffidare della folla.
Proprio in quel momento ci fu del movimento, un gruppetto di persone cominciò. ad agitarsi, ad alzare la voce e a spingersi vicino alla mia macchina. La colonna di auto non riusciva a muoversi e qualcuno, dietro, suonava il clacson. Mi hanno sempre fatto incazzare quelli che, negli ingorghi, suonano il clacson: non serve a niente, sfonda i timpani e fa saltare i nervi a tutti.
“Fermi, fermi!” gridava uno con una fascia del sindacato al braccio.
“E’ un operaio e sta con i padroni!” urlò un altro.
“Sto con chi mi pare, fascista!” strillò un piccoletto baffuto.
Volò un ceffone, uno schiaffo violentissimo e improvviso, sferrato da una mano callosa da operaio.
Il botto risuonò forte e cupo zittendo tutti.
L’ometto con i baffi, quello che aveva ricuvuto lo schiaffo, venne sollevato da terra, girò in aria su se stesso e atterrò sul cofano della mia auto.
Rimase lì, a pancia sotto sulla mia vettura, con braccia aperte e gambe larghe per qualche secondo.
“Sei scemo!”
“Vai via, imbecille!” si sentiva dire a bassa voce
“Rovini lo sciopero”
“Così ci rimette il sindacato”
“No! Così impara quel cornuto a voler andare a lavorare per forza. E’ da stamattina che mi urla nelle orecchie. Ora, almeno, starà un po’ zitto” disse il picchiatore cercando di darsi dignità con una grattata di culo.
Erano tutti intorno all’operaio prepotente e nessuno considerava il baffino steso sulla mia carrozzeria. Io non mi ero mosso dal volante: avevo un po’ paura, ma mi veniva anche da ridere. Stavo pensando anche che avrei dovuto portare la macchina a lavare: quello pisciava sangue dal naso come una fontana allagandomi il cofano e io non avevo certo intenzione di lavare quello schifo da solo.
L’ometto sollevò appena la testa, stava piangendo e sanguinando.
Masticava nella bocca impastata lacrime, sangue e bestemmie.
Poi si sollevò di scatto e sia alzò rimettendo i piedi a terra.
Il suo aggressore, largo come un armadio, era qualche metro più in là, di schiena, circondato da un gruppetto di compagni: scuoteva il testone e dava la sua versione cercando di darsi un contegno.
L’uomo del sindacato tentava di riportare la calma.
“No, compagni, così non si fa. Cosi ne va di mezzo il sindacato, così si danneggia tutto il movimento e si sciupa lo sciopero. Sono finiti i tempi in cui si risolveva tutto a botte; ora bisogna rispettare le idee di tutti… bisogna tollerare chi non la pensa come noi…”
L’omone si piantò i pugni sui fianchi e, a gambe larghe, avvicinò il suo faccione a quello striminzito del sindacalista.
“Ma che vuoi rispettare. Ma che vuoi rispettare – ripeté più forte – quello vuole che noi facciamo sciopero. Noi perdiamo le giornate mentre lui lavora e guadagna e magari il padrone gli dà anche il premio e poi se si ottiene qualcosa lo piglia lui come noi che s’è scioperato. E no! Se si ottiene si ottiene tutti? Allora se si sciopera si sciopera tutti! E’ tutto il giorno che dice che fa quello che gli pare, ma che fa? Ma che vuol fare quella mezza sega….”
“Non insistere” disse qualcuno.
“Così ti metti dal torto” aggiunse un altro.
Il baffino, intanto, si era pulito il viso col fazzoletto e ascoltava con attenzione quello che veniva detto, poi, rapido come un topo, come colto da un impulso improvviso, tirò fuori dai calzoni un coltelletto a serramanico e l’apri.
Io, dal vetro anteriore della macchina, vedevo la scena benissimo: mi sembrava di essere al cinema, seduto in prima fila.
Il piccoletto schizzò verso il gigante e nessuno, tranne me, se ne accorse.
Ero al cinema, seduto in prima fila ed ero pure l’unico privilegiato spettatore!
Suonai il clacson per avvisare, ma c’erano già tanti altri che suonavano il clacson a sproposito e nessuno ci fece caso: riuscii solo a fare la figura dell’imbecille fra tanti altri imbecilli.
Feci per scendere, ma era troppo tardi: il grosso si era già beccato una, due, tre coltellate nelle lonze.
Il piccolo era in piedi immobile, tutti lo guardavano inebetiti e l’omone era con le ginocchia a terra, il busto piegato in avanti e la testa appoggiata sull’asfalto.
Piangeva e chiamava aiuto come un bambino.
La frittata era fatta.
Il tempo sembrava essersi allungato come un elastico.
Io, ancora seduto al volante, continuavo a seguire la scena che scorreva danti a me come rallentata.
A tratti avevo la sensazione di poter spingere un pulsante e mandarla indietro per rivedere con più attenzione un passaggio interessante.
Ora la strada era dominio dei dirigenti sindacali: venne chiamato subito il 118, vennero chiamati i carabinieri. Si valutava se era meglio aspettare l’autoambulanza o prendere un’auto e portare a tutta velocità il ferito direttamente all’ospedale. L’ambulanza tardava a venire.
Allora prevalse la bella trovata di portare il ferito all’ospedale con un’automobile…
“Bisogna far presto! Sta male, sta male! Perde sangue da tutte le parti! Prendete una macchina, subito! La prima disponibile, subito”
“No, perdio no – cercai di oppormi -, non qui!”
La prima auto disponibile, quella in prima fila, la più vicina, la più comoda, la più facile da requisire era la mia! Caricarono a forza il bestione sanguinante, mezzo svenuto, moccicoso e bavoso, sul seggiolino accanto al mio e fecero largo per farmi partire a tutta birra.
Io sgassai, con l’odio nel cuore e negli occhi. In quell’attimo Si sentirono nettamente le sirene spiegate dell’autoambulanza e della macchina dei carabinieri.
Il disgraziato, dolorante, pietosamente accartocciato su sé stesso, sconvolto, venne ritirato giù dalla mia povera auto e caricato sull’ambulanza che aveva inchiodato a pochi centimetri dalla mia carrozzeria.
Velocemente venne fatto salire il ferito, poi, ululando tristemente, l’autoambulanza ripartì di gran carriera.
Il mio seggiolino di destra era ridotto a uno schifo.
Fu allora che i carabinieri cominciarono a fare il loro lavoro..
L’aggressore, che era rimasto tutto il tempo immobile con il coltello in mano, isolato ma attento, si lasciò disarmare e caricare in macchina dai militari senza dire una parola né opporre resistenza.
I carabinieri cominciarono a interrogare tuttí, a prendere le testimonianze e le generalità dei presenti. Toccò anche a me.
Date le circostanze fui uno dei pochi privilegiati a essere immediatamente convocato in caserma per un interrogatorio più accurato da parte del capitano dei carabinieri Martinengo.
“Domattina va bene?” chiesi ingenuamente.
“Domani – rispose l’appuntato – sta scherzando? Subito! Subito! Non abbiamo tempo da perdere!”
“Ma io non posso – protestai – ho un impegno urgentissimo di lavoro! Io non posso oggi.”
“Il suo lavoro, oggi, è di aiutare la giustizia. Poi, se vorrà, le faremo una giustificazione scritta per il suo datore di lavoro.”
“Ma che giustificazione – mi lamentai – almeno speriamo di fare presto.”
Fine Parte Terza – continua