Quella mattina di ottobre faceva tempo buono: il cielo sereno e terso era così bello che mi ricordava i giorni della mia gioventù, quando ragazzino a settembre e ottobre tornavo a casa dal liceo, con gli amici, facendo l’autostop. Avevamo sempre un motivo per non riuscire a prendere l’autobus e allora ci mettevamo sulla strada con il dito alzato. Vedevamo le montagne davanti a noi, vicine, alte e belle, splendidamente colorate, e il sole ci scaldava il futuro.
Eravamo giovani, belli, innamorati e pieni di aspettative; e come per tutti i giovani di tutti i tempi il nostro vigliacco destino era quello di perderci, di distrarci nel momento meno opportuno, di perdere il treno fondamentale della vita e di accorgerci, poi, improvvisamente, passati i trent’anni, che il futuro non c’era più e che sarebbe stato bello aver vissuto profondamente il presente.
E invece il presente ci era inavvertitamente sfuggito…
Nessuno, in verità, si era preoccupato di avvertirci che la cognizione del tempo che passa sarebbe stata così ingannevole e provvisoria.
Così la nostra gioventù e noi stessi non ci siamo già più: inghiottiti dal ritmo e dal ripetersi del lavoro, dall’assenza di lavoro, dalle scadenze, dagli impegni inderogabili, dalla fretta di fare cose completamente prive di senso e dalla ricerca di un benessere che non completa e non appaga.
Erano belli quegli anni: col sole e con la pioggia ci sembravano anni giusti, anni in cui qualcosa di buono stava per accadere.
Come sempre accade, quegli anni erano belli solo nella fantasia di noi giovani: passavamo fra le bombe stragiste, fra le sventagliate di mitra dei terroristi, fra le trame eversive e fra le crisi petrolifere come se fossero state spighe di un campo di grano; e aspettavamo il nostro momento, che stava per venire.
Quella mattina di ottobre, dunque, era bella come quelle della mia gioventù e io, come allora, mi sentivo libero e pieno di aspettative
In quella inusuale eccitazione giovanile mi beavo e deliziavo e mi ci ero tuffato dentro: in una calda e accogliente profondità.
Convinto dei miei mezzi, rilassato e sicuro, me l’ero presa comoda: ero passato all’edicola a comprare il giornale e una rivista, poi mi ero seduto a un tavolinetto del bar della piazza centrale e avevo fatto colazione leggendo, con calma, quasi tutte le notizie.
Dopo un po’ mi ero alzato, avevo sistemato bene camicia e pantaloni, mi ero infilato gli occhiali da sole, ero salito in macchina ed ero partito all’avventura. Alle dieci del mattino ero davanti al negozio.
Era un negozio di abbigliamento, come ce ne sono tanti, dappertutto: tutti uguali, con molti scaffali, maglie pantaloni, camicie colorate, sciarpe, giubbotti, scarpe, cappelli, cappellini e con sorridenti, gentili e giovani ragazze pronte ad accogliere la clientela.
Lei era già lì; aveva appena aperto e stava posizionando nuova merce in uno scaffale.
Ero entrato e l’avevo salutata con sorriso cordiale. Lei mi aveva risposto con cortesia, ma senza calore: non mi aveva riconosciuto o aveva fatto finta di non riconoscermi.
“Sono stato qui da voi ieri sera – dissi – a comprare una camicia …”.
“Mi dica – fece lei – ci sono problemi? Vuole cambiarla?”.
“No, no affatto. Va bene, molto bene – risposi -, anzi guardi, l’ho indosso”.
Lei aveva sgranato un po’ di più gli occhi, senza dire niente, e aspettava. Aveva, forse, ventotto, trent’anni; aveva un volto non classico, non regolare e questo la rendeva particolarmente affascinante. Aveva quel bel sorriso, furbo, intelligente, accattivante che hanno le ragazze quando diventano donne. Gli occhi, neri, erano intensi, intelligenti e la strana piega che prendeva la sua bocca quando accennava al sorriso la rendeva immediatamente simpatica.
Lei, gentilissima e sorridente, stava ancora aspettando. Io, credo, avevo balbettato qualcosa, ma non me lo ricordo. Fu allora che fece quella smorfia con la bocca allungando le braccia verso di me, aprendo le mani con le palme rivolte in alto, e muovendo le dita, velocemente, come per incitarmi a parlare.
“Ecco – dissi – io stanotte, beh. stamani e anche ieri sera, io, io ho pensato a lei. Si, non rida, ho proprio pensato a lei. Sa, quando sono venuto qui, ieri sera, lei è stata così gentile, cosi cordiale e simpatica, lei, sa… lei è cosi bella, sì… insomma, cosi affascinante che… che mi è piaciuta subito e allora stamani ho deciso di fare sciopero …”.
“Cosa dice? Lo sciopero? Lei caro signore è tanto galante, ma se è del sindacato devo deluderla, io non faccio sciopero. Oppure, oppure, se non è del sindacato, forse lei è solo un po’ matto”.
“No, non sono del sindacato e neanche mi interessa tanto lo sciopero, è solo che io non sono andato a lavorare perché la volevo rivedere subito; io la volevo invitare a uscire con me, magari a pranzo. Io – continuai, io, mi scusi… non mi sono presentato. Piacere, mi chiamo Stefano…”
Avevo steso la mano. Me la strinse cordialmente.
“Piacere, io sono Giorgia. La ringrazio, ma non posso. Ho già un impegno per il pranzo…. con mio marito. Mi dispiace molto che abbia perso il lavoro per niente”.
Le avevo lasciato la mano e avevo fatto un passo indietro. Che figura! Non avevo valutato la possibilità più banale e negativa per me. Se fosse stata fidanzata, forse… ma sposata no, proprio no, non era possibile. Ero, di nuovo, senza parole e stavo facendo la figura del cretino.
“Mi scusi – balbettai – mi creda, sono dispiaciuto e fortemente in imbarazzo. Io non sono un maniaco, un molestatore. Non faccio mai cose cosi, sono anche timido. Il fatto è che lei veramente mi piace, tantissimo.”
“Non è niente – disse sorridendo – non si preoccupi”.
Mi guardava dritto negli occhi, continuava a sorridere e non faceva niente per mandarmi via.
Ero sempre più imbarazzato e indeciso: avrei dovuto andarmene o, forse, avrei dovuto insistere? Cosa voleva lei? Cosa mi suggerivano i suoi occhi?
Perché la sera prima mi aveva guardato con tanta insistenza? Solo per vendere la camicia? No, non poteva essere. Per divertirsi, per sfidarmi? Perché ora continuava a fissarmi sorridendo? Perché non si era arrabbiata e non mi aveva sbattuto fuori?
Avevo tentato di uscirne con una battuta:
“Se è sposata – azzardai – non mi resta che spararmi… sa, io avevo puntato tutte le mie ultime carte sul suo sorriso e ora ho perduto tutto. Addio”.
“Non si spari – fece lei con un tono come se stesse parlando a un bambino – le ho solo detto che ho un impegno a pranzo. Lei è libero questa sera? Potremmo andare a cena”.
“Mi prende in giro?”
Balbettai.
“No, se lei non prende in giro me”.
Avevo fatto un altro passo indietro, quasi spaventato dalla sua sicurezza, poi ero tornato avanti e avevo di nuovo teso la mano destra, lei me l’aveva stretta, ancora con forza e decisione.
“Allora ci vediamo stasera alle otto e mezza”.
“Qui?”
Avevo chiesto
“No, a casa mia. Stasera, per lei, smetterò di lavorare prima. Avrò bisogno di un po’ di tempo per prepararmi. L’avverto, sono molto esigente: voglio un buon ristorante e un accompagnatore elegante”.
Mi aveva dato il suo indirizzo e si era rivolta a due clienti che erano appena entrate.
Mi ero fermato qualche attimo a guardarla. Non mi considerava, come se avesse appena finito di svolgere una pratica del tutto normale. Ero uscito inebriato, camminavo guardandomi riflesso nelle vetrine.
“Fa proprio bene scioperare.”
Pensai.
Fine parte seconda – continua