In pochi minuti ero alla caserma.
Dopo due ore di inutile attesa non ero stato ancora sentito; intanto arrivavano notizie contrastanti dall’ospedale.
“Lo stanno operando: è grave!”
“E’ fuori pericolo, è salvo”
Io avevo già letto tutti i numeri de “Il Carabiniere” che facevano mostra di sé nella saletta di attesa dove ero stato accompagnato con altri testimoni. Mi ero fatto l’idea che, essendo io l’unico estraneo alla manifestazione, sarei stato tenuto per ultimo per dare una interpretazione più obiettiva rispetto allo svolgimento dei fatti.
Per colmo di sfortuna, alle due del pomeriggio eravamo rimasti soltanto io e un sindacalista. Chiamavano prima lui e lasciarono me da solo ad aspettare l’ultimo turno.
Io ero stanco, avevo sete e fame, sentivo un bisogno fortissimo di farmi un bagno.
Riuscii a ottenere un caffè cattivo da un giovane carabiniere di leva che era più rimbambito e frustrato di me e che passava il tempo a sbadigliare dietro una scrivania polverosa.
Sentivo, dietro alla porta dell’ufficio del capitano, il sindacalista parlare e parlare con voce appassionata, sentivo l’ufficiale alzare la voce per interromperlo e ripetere le domande.
Si sentiva anche una macchina da scrivere picchiettare fastiosamente a ritmo sincopato.
Provai anche a dormire, ma stavo scomodo e la schiena mi faceva male; avevo perso tutta la poesia della mattina.
“Non fa affatto bene scioperare!” mi dissi.
In un angolo della stanza c’era un pilastrino di marmo, alto circa un metro, con un capitello e sopra c’era una statuina di bronzo che raffigurava un carabiniere a cavallo, lanciato alla carica con la sciabola sguainata.
La sciabola portata con braccio teso parallelamente al terreno puntava dritto contro di me.
Mi alzai per andarlo a guardare da vicino la statuina. Piegai un po’ le gambe per mettere il viso alla sua altezza: gli occhi erano buchetti vuoti e la sua bocca aveva una smorfia cattiva. Con la sciabola minacciosa pareva che volesse staccarmi la testa dal collo. Era piccolo, brutto e cattivo. Antipatico. Gli mollai uno schiaffo nella piccola testa e per poco non lo mandai a sbattere per terra con tutta la colonnina; soddisfatto me ne ritornai al mio posto, mandando a quel paese quell’orribile soggetto.
“Cosi impari a fare quella faccia con me” gli dissi.
Alle pareti c’erano tre o quattro quadretti polverosi con stampe che riproducevano azioni eroiche. di bravi carabinieri; ognuna di queste stampe portava in basso una breve didascalia che narrava l’evento rappresentato.
Un calendario, di quelli a cui ogni giorno va staccato il foglietto, era fermo ad agosto.
Lo squallore regnava sovrano.
Erano quasi le tre quando la porta della stanza del capitano si aprì e ne usci il sindacalista: sudaticcio, ma visibilmente soddisfatto, il militante salutò con calore e ossequio fin troppo esagerato l’ufficiale dei carabinieri, che ricambiò con palese distacco.
Il sindacalista uscì di scena ringraziando ancora.
Mi fecero entrare dopo ulteriori cinque minuti di attesa.
Un anziano carabiniere mi indicò una sedia; io mi ci buttai a corpo morto, senza dire una parola, dimostrando tutto il mio disappunto. Allungai le gambe fin quasi sotto la scrivania. Il capitano mi guardò male senza commentare; poi rivolto all’appuntato:
“Se richiamano i giornalisti dica che tra mezz’ora possono venire in caserma a sentire la nostra versione dei fatti. Nel frattempo cercherò di riparlare col magistrato”.
L’ufficiale continuò a scrutarmi, per qualche attimo, in silenzio; come per studiarmi, per capire chi aveva di fronte. Io, per parte mia, lo guardavo negli occhi, mostrando che non mi fregava niente di chi avevo di fronte e cercando di fargli capire subito che avevo solo voglia di andarmene al più presto.
Più che un capitano dei carabinieri, quel tipo insignificante che avevo di fronte mi ricordava un paffuto impiegato della posta.
Alla fine con tono distaccato mi rivolse la parola.
“Mi racconti esattamente quello che ha visto. Eviti, per favore, i commenti: ne ho già sentiti troppi oggi.”
Raccontai, ma non potei fare a meno di insistere sul fatto che, in fondo, l’omino aveva reagito a un’aggressione: che si era difeso insomma.
Il capitano, stufo, tagliò corto e dopo pochi minuti ero già fuori.
Anche ai due giornalisti che trovai nella saletta dovetti ripetere il mio racconto e ribadire la mia simpatia per il piccoletto, che, tutto sommato, si era dimostrato orgoglioso e coraggioso.
Purtroppo la sua grinta, questa volta, non gli aveva giovato e per il momento era in cella di sicurezza in attesa della decisione del magistrato: carcere, arresti domiciliari o libertà in attesa di giudizio.
La sua vita, comunque, da quel momento sarebbe stata sicuramente più difficile.
Il ferito, intanto, era uscito dalla sala operatoria e, mi disse un giornalista che veniva dall’ospedale, era fuori pericolo. Meno male.
Quando mi richiusi la porta della caserma alle spalle e, fuori, potei respirare l’aria carica dei profumi dell’autunno, tornai verso la mia povera auto come ancora scosso, come ubriaco, con gli occhi doloranti e pesti, la bocca impastata.
Mi fermai al primo bar e presi un altro caffè; mi era pure passata la fame.
Naturalmente intorno a me tutti non facevano altro che parlare del fatto del giorno.
“Secondo me, sotto c’è una storia di donne – sosteneva un pensionato con una coppoletta in testa – Non sarebbe certo la prima volta che due uomini si sbudellano per una donna. Che si possa fare a coltellate per uno sciopero mi pare strano, di questi tempi.”
“Gli esaltati sono dappertutto – replicò il barista -. C’è gente che si ammazza per una partita di pallone, figuriamoci per la politica…”.
“Le donne, il pallone, la politica disse uno che aveva la mano destra incollata al bicchiere di bianco frizzantino son tutte scuse quello che manda fuori di testa la gente sono soldi! Se sei senza soldi t’incazzi per tutto; io lo so bene che son sempre nervoso. Certo che piuttosto che fare alle coltellate è meglio farsi un bicchieretto e una chiacchierata, ma non tutti abbiamo i soliti gusti.”
“E allora che si ammazzino pure, tanto siamo in tanti al mondo…”
“Ah, per me, quando il sangue mi arriva ai piedi io mi sposto più in la.”
Avevo buttato giù il caffè tutto d’un flato e mi ero anche bruciato la bocca e l’esofago, maledizione!
Ero scappato via di corsa per evitare di essere coinvolto in una discussione accademica di tale livello. Arrivai, di volata, a casa e mi buttai sul letto.
Sporco, sudato, nervoso, stanco, amareggiato, schifato.
Mi addormentai subito.
Alle sei e mezzo del pomeriggio feci un salto sul letto: mi ero; svegliato ricordandomi improvvisamente dell’appuntamento con Giorgia. Controllato l’orologio mi alzai in fretta: un po’ indolenzito, ma, tutto sommato, abbastanza riposato, rilassato e, di nuovo, caricato al punto giusto per affrontare la serata.
Avevo abbastanza tempo per prepararmi e la dormita pomeridiana mi aveva rimesso di buon umore.
Avevo fame; corsi al frigo e ingollai in fretta un po’ di roba pescata a caso.
Mi feci finalmente una lunga doccia.
Stavo bene sotto l’acqua, sentivo che il corpo si riprendeva dopo l’inaridimento del mattino.
Mentre mi asciugavo, davanti allo specchio, pensai al vestito da indossare.
“Sono quasi pronto – mi dissi -, arriverò puntualissimo e bello. C’è tutto il tempo per andare a prendersi un aperitivo in centro e poi, alle nove, al ristorante. Sarà proprio una bella serata”.
D’improvviso, riflesso nello specchio, mi sembrò di veder arrivare dietro di me, lanciato al galoppo sul suo cavallo e con la sua spada sguainata, il piccolo carabiniere di bronzo che avevo visto poche ore prima in caserma.
Mi voleva infilzare! Fu come un lampo che mi attraversò la mente e una scossa di terrore mi percorse la schiena.
La mia macchina! Pensai. O mio Dio, la macchina!
La mia macchina era tutta sporca, insanguinata, impresentabile: ero a piedi!
Avevo dormito come un incosciente senza pensare che ero rimasto a piedi.
Che potevo fare? Dovevo trovare subito un’altra automobile.
Mi misi al telefono e pensai a chi chiedere il favore. Chiamai tre amici e non trovai nessuno.
Preso dalla disperazione telefonai a Daniela. Con tono dimesso sostenni per dieci minuti una discussione assurda e paradossale basata su preamboli del tipo “Come stai, ti sento bene, il lavoro come va? E tua madre? Sempre in gamba? Cucina divinamente. Sì, lo so; anch’io sono stato molto male. No, non esco con nessuno. Si, è presto, molto presto. Sì, certo un po’ mi manchi … molto, molto, mi manchi molto. Certo lo so che così non poteva più andare…”
Poi, alla fine, quando venne il momento di chiederle la sua auto in prestito per la sera, lei mi mandò a fare in culo e mi chiuse il telefono in faccia.
Era il minimo.
Fine Parte Quarta – Continua