Già in partenza era stata, per me, una mattina strana: non dovevo andare lavorare e questo mi aveva messo in uno stato di curiosa eccitazione. Mi ero svegliato senza incazzature e, per prima cosa, mi ero fatta la barba: io la barba me la faccio, quando va bene, una volta alla settimana, contro voglia e, magari, la sera. In più avevo ancora in mente quella commessa che il pomeriggio precedente mi aveva puntato, osservato e scrutato senza ritegno.
Era sensuale ed eccitante, spregiudicata e di classe. Avevo una mezza idea di tornare a vederla per capire se c’era niente da combinare. Appena messo il dopobarba mi era venuto un dubbio: “Forse le sarò piaciuto perché avevo la barba incolta?” mi ero chiesto e, scrollando le spalle, avevo pensato che bisognava, comunque, verificare subito.
La mia storia con Daniela era finita già da qualche mese ma non avevo voglia di ritrovarmi negli stessi casini, nei litigi, nelle gelosie, le incomprensioni ridicole: nella prigione degli affetti obbligatori e delle risposte obbligate.
Per ora, per grattarmi seriamente il capo, mi bastavano i miei problemi sul lavoro e, soprattutto, la mia cronica mancanza di soldi. Passavo metà del mio tempo a correre dietro alle scadenze e ai bollettini da pagare e a litigare con gli impiegati e il direttore della banca che non mi davano respiro.
“Cazzo – dissi parlandomi nello specchio – oggi è sciopero generale: tutti a casa, anche quegli stronzi non possono rompermi i coglioni”.
Appena infilati i calzoni mi ero frugato in tasca e avevo contato i soldi.
Con centododicimila lire in mano non si può riuscire in una sola giornata a conquistare una bella commessa, neanche se uno è bello e affascinante.
“Mi aiuterò con la carta di credito – pensai – e, se ci sarà bisogno, mi attaccherò al bancomat”.
Quando uscii di casa ero rilassato e convinto dei miei mezzi. Erano appena le otto ed ero già bello pimpante. Nei giorni normali, a quell’ora, non ero ancora arrivato al lavoro e quando entravo in ufficio trasandato e brutto i miei due colleghi mi guardavano male e bofonchiavano tra loro. Cosa avranno mai voluto da me quei due? Rendevo più io in un’ora che loro in tutto il giorno: se la potevano mettere al culo la loro puntualità. Il mio capo lo sapeva e io lo apprezzavo per questo, anche se era un maledetto presuntuoso: è vero che era riuscito a mettere su la sua azienda solo grazie ai soldi dei suoceri, ma comunque era schifosamente bravo: comprava e vendeva di tutto e gli andava tutto bene; lavorava come un matto e si sentiva anche realizzato, gli si leggeva in viso. Lavorava, lavorava, ma aveva l’occhio vispo, mi sa che trovava pure il tempo di spassarsela. Certo quando il giorno prima gli avevo detto che sarebbe stato sciopero generale anche per me c’era rimasto male e io, cattivo, avevo goduto. Ma, d’altra parte, io quella feria straordinaria, inaspettata, piovuta dal cielo, dovevo proprio prendermela.
Erano mesi e mesi che sgroppavo senza sosta: a controllare gli arrivi degli acquisti, a portare a spasso i clienti, a litigare con i fornitori e con le banche e a litigare pure con quei due scemi dei miei colleghi il cui unico compito era quello di far quadrare la contabilità, di rispondere al telefono e di ricordare gli appuntamenti al capo. In altre parole io dovevo far girare i soldi, far funzionare il cervello per farne rimanere più di quanti ne uscissero, incazzarmi con chi non mi faceva con puntualità le consegne, con chi le faceva sbagliate, con chi si scordava di farle e in più dovevo anche scusarmi e inventare balle ai clienti che aspettavano invano la merce, fare il duro con i clienti che non volevano pagare, leccare il culo ai clienti che pagavano bene e con puntualità. e in tutto questo casino gli altri due erano pagati semplicemente per far apparire ordinato e perfetto tutto quel disordine assurdo in cui io dovevo muovermi e galleggiare.
Intanto il capo faceva il genio: studiava nuovi mercati e nuovi settori da saccheggiare, ne riapriva di vecchi, viaggiava in Italia e all’estero, si godeva la sua immagine di ottimo uomo d’affari e di famiglia; perché, oltre tutto, sembrava che adorasse la moglie e quei due schifosissimi figli che aveva.
I miei due insopportabili colleghi erano un uomo, Giovanni (una quarantina d’anni con pancia) e una donna, Francesca (trentacinque, rossa tinta, unghie lunghe e grosse tette). Io ho sempre sospettato che il capo l’avesse assaggiata più di una volta. Comunque fosse, lei lo venerava. Giovanni era sicuramente perso per lei, ma non ci provava perché aveva paura e la credeva una santa. Credo che se Francesca glielo avesse chiesto lui avrebbe ammazzato la moglie e figli e sarebbe scappato con lei in Giamaica.
Io, da parte mia, guardavo le sue grandi tette quando ero giù di morale, ma non mi ero mai spinto oltre perché se fossi andato a letto con lei mi sarebbe sembrato di essere a lavorare.
Quello era un periodo in cui di lavorare non ne potevo proprio più. In tutta l’estate passata (era ottobre) non mi ero potuto prendere un solo giorno di ferie e gli ultimi tre giorni in fila di vacanza li avevo avuti a Pasqua, ma allora stavo ancora con Daniela e, così li avevo passati a litigare. E allora benedetti i sindacati e benedetto il governo che era riuscito così bene a rompere le palle a tutti da far proclamare (di venerdì!) uno sciopero generale…
In realtà, a me della politica non è mai importato molto, ma in quei giorni mi sentivo proprio un convinto contestatore, uno di quelli che se il Sindacato proclama lo sciopero fanno lo sciopero e basta.
Così, sciopero era stato.
Fine Parte Pima – Continua –