A fine mattinata avevano centrato piante, rocce, cataste di legna, ruderi. Avevano sparato perfino contro un metato facendogli saltare le imposte di legno delle piccole finestre.
“Ho fame – si lamentò, alla fine, Mario tutto sudato e indolenzito – ora facciamo una sosta. Ho proprio fame.”
“Pietro, accendi il fuoco – ordinò Beppino – che io pulisco il pesce.”
Finalmente era tutto silenzio: si potevano udire i delicati versi degli uccelletti nel bosco e il lieve frusciare dell’aria, appena mossa, tra le fronde.
Pareva che la tenera brezza, quasi estiva, uscisse dal bosco per rincorrersi nell’accecante luce del sole e tornare, infine, indietro portando i profumi di un mondo incantato.
La montagna, inondata dalla luce del sereno, era coperta da tutte le gradazioni del verde e del giallo con macchie e sfumature marroni e arancio.
Fraschetta aveva cambiato albero; ora era salito su un grosso ramo che sporgeva a picco sul vuoto e che gli consentiva di guardare senza avere altri ostacoli davanti.
“Oh – fece – c’è pieno di gente di là al paese. Ci sono anche degl’omini, mi sa che abbiamo fatto un bel po’ di confusione.”
“Hai ragione – disse Romano mettendosi una mano a visiera, di taglio sulla fronte – si vedono anche a occhio nudo.”
“Chissà come si sono divertiti!”
Concluse Pallino.
Fraschetta, ancora col binocolo puntato, vide una fiammata brillare di là nel paese, poi sentì crepitare i colpi, poi li sentì arrivare violenti e spezzare dei rami poco distanti da lui.
“Porco cane! – imprecò – Ci sparano addosso quei matti.”
“Vieni qui – disse Beppino al fratello, passandogli il coltello a serramanico – puliscilo te il pesce che dopo si mangia. Mario, forza! Rispondi al fuoco! Stanno attaccando la Quinta Armata!”
Ci fu, da entrambe le parti, qualche attimo di silenzio, innaturale, e di attesa.
“Dove sparo?”
Chiese Mario.
“Dove è partita la scarica?”
Domandò Beppino.
“Da dentro il paese – rispose Fraschetta – dove c’è la piazza. Ma ora non c’è più nessuno. Son tutti spariti.”
“Spara in alto, sopra il paese, e stai attento a non colpire le case – comandò Beppino – così capiscono con chi hanno da fare. Una raffica e basta, dopo si vede quel che succede!”
Mario fece partire una scarica secca e breve e dall’altra parte risposero subito al fuoco: con rabbia e violenza.
La battaglia infuriò per alcune ore: da una parte la Quinta Armata e dall’altra una pattuglia partigiana che non aveva ancora deposto le armi.
I ragazzi spararono tutti i proiettili che avevano e, intanto, cossero il pesce e se lo mangiarono; mangiarono pane e formaggio pecorino e cantarono e fumarono e giocarono alla lotta.
A turno fecero anche il pisolino del pomeriggio.
Fraschetta dormì sul suo ramo.
“Vieni giù – gli diceva ogni tanto Beppino – che lì sei esposto.”
“Non ti preoccupare – rideva lui – quelli non sanno sparare.”
Verso sera, mentre da tutte le parti i colpi si erano fatti meno frequenti, Pallino, sdraiato a terra, con le mani dietro la testa e le gambe accavallate
“Oh, ora basta. – disse – Io devo tornare giù. Se no mì madre mi fa un mucchio di storie.”
“Si andiamo – approvò Romano alzandosi in piedi – io non ne ho più voglia.”
“Andiamo, andiamo che è ora – approvò Beppino – carichiamo le armi e torniamo a casa.”
Fraschetta si buttò giù dall’albero facendo un salto di tre o quattro metri e si mise in testa al gruppo.
Cantarono e gridarono per tutto il tempo finché non furono in vista del paese, del fiume e della via carrozzabile semidistrutta dalla guerra.
Erano quasi all’uscita del bosco e si stava facendo buio.
“Ho paura che ci siano i carabinieri, qui sotto ad aspettarci.”
Disse Mario.
Beppino frugò nel tascapane e tirò fuori una bomba a mano, un’altra di quelle tedesche.
“Così li facciamo scappare!”
Disse lanciandola di sotto, nel vuoto buio.
I lampi dell’esplosione e il boato sfasciarono l’oscurità e il silenzio e rassicurarono la banda di ragazzi.
“Ora possiamo andare.”
Gongolò Fraschetta.
Fecero un centinaio di metri con andatura sicura e dinoccolata, ma dietro le pareti di una casa diroccata i carabinieri c’erano davvero.
“Fermi! E mani in alto! – gridò il Maresciallo – Questa volta l’avete fatta grossa disgraziati. Posate le armi!”
In un attimo i ragazzi avevano impugnato mitra e pistole e si erano appiattiti nell’ombra.
“Buttagli una bomba!”
Gridò Fraschetta.
“Zitto! – urlò Beppino – State giù. E lei stia calmo, Maresciallo!”
I due gruppi, nelle tenebre, si fronteggiavano a pochi metri di distanza: esaltati e folli i giovani, nervosi e agghiacciati i carabinieri.
“Arrendetevi!”
Intimò il Maresciallo.
Beppino restò qualche secondo in silenzio, mentre tutti aspettavano la sua risposta, poi si mosse con cautela:
“Calmo, Maresciallo, calmo. – disse – Ora io vengo fuori, piano piano, senza fare scherzi e parliamo.”
Avanzò facendosi riconoscere e intavolò una trattativa storica.
Beppino disse che i carabinieri avrebbero avuto solo due possibilità: o lo scontro a fuoco, o la resa della banda di ragazzi, ma lasciando loro l’onore delle armi.
Il Maresciallo, che era un buon padre di famiglia e che aveva già visto troppe atrocità nella sua vita, concluse la discussione stringendo con forza la mano a Beppino e lasciandogli andare una pacca, severa ma non forte, tra orecchio e nuca:
“Mi raccomando – disse, come ultimo saluto – vi aspetto in caserma domattina, non più tardi delle dieci.”
I militari se ne andarono per primi e i ragazzi sgattaiolarono in fretta alle loro case.
La notte piovve forte, con intensità e rabbia: ci furono tuoni obesi e ridondanti e lampi secchi e cattivi e scrosci e raffiche di vento che sfrecciavano nella vallata.
I bambini più piccoli, abbracciati alle madri, davano loro calore e piangevano sudati perché, intorno a loro, parevano essere tornati a ballare i fantasmi rumorosi della guerra, delle bombe e dei mortai.
Ma, prima dell’alba, era già tutto di nuovo finito e il vento forte, soffiando via tutto, aveva riportato il sereno.
Il mattino si presentò limpido e pulito, con l’aria ancora umida e fresca che rinfrancava i polmoni, con gli odori forti e sinceri che si alzavano dalla terra e dalla natura bagnata e con la visibilità infinita delle giornate migliori dell’anno: la visibilità che scopre vette e rilievi lontani e che pare rendere più agevole, più facile e vicino il futuro.
Fu così che, poco dopo le nove e trenta, si poté scorgere da lontano, avanzare, in fila indiana, la piccola colonna di ragazzi orgogliosi che si avvicinava alla piazza del paese dov’era, allora, la caserma dei carabinieri.
Una piccola folla di donne, bambini e uomini quasi anziani si era già radunata ai lati della strada in leggera discesa.
Tra questa gente sfilò la Quinta Armata: in testa Mario e Beppino, con i capelli, neri e lustri di brillantina, tirati all’indietro, con indosso le camicie e i pantaloni migliori, quelli serbati per il Natale, portavano sollevata sopra la testa, con le braccia nervose tese in alto, la grande mitragliatrice.
Dietro a loro, gli sten alzati verso il cielo portati a due mani, le pistole infilate nella cintura dei calzoni, venivano gli altri cinque compagni.
Gli sguardi fieri e intensi, i petti gonfi: i giovani eroi procedevano con passo sicuro.
Pallino e Gigi spavaldi, Pietro indifferente, Fraschetta con la cicca accesa in bocca e il sorriso allegro.
Romano, ultimo e innamorato, scovò tra la gente il sorriso tiepido di Iolanda che, quella mattina, pareva più bella che mai.
Consegnarono le armi, ma fu il loro trionfo: fu la loro gioventù rigogliosa che sfilò con forza, spavalderia, amicizia, sincero amore, vitalità.
Una mattina così straordinaria non l’avrebbero avuta mai più e, forse, sarebbe stato giusto poter fermare il tempo per loro.
FINE