Avvenne tutto con la velocità di un lampo.
I bambini, costretti dalla guerra a pensieri e comportamenti e tensioni da uomini, si svegliarono quelle mattine di fine primavera con la felicità e l’incoscienza di ragazzi in vacanza.
Finalmente la Linea Gotica era stata spazzata via dall’ultima offensiva degli eserciti alleati e i colpi dei mortai e le bombe delle fortezze volanti non scuotevano più il petto.
Restavano, è vero, le infinite macerie delle case, nelle strade affacciate sul fiume, e le carcasse in divisa di giovani di tutti i colori e di tutti i paesi.
Giovani che non sarebbero più tornati alle loro terre, ma tutto sembrava, ora, un enorme e grottesco campo giochi.
Ogni ragazzo aveva uno sten nascosto in qualche buco e con le bombe a mano, quelle tedesche col manico, si pescavano le trote.
Si andava di corvè, accompagnati dagli enormi soldati neri della divisione Buffalo, lungo i sentieri, su per le colline, nei boschi di castagno ad infilare nei sacchi le ossa e i resti dei caduti:
“Questo dev’essere un tedesco, lo lasciamo qui? ”
“Mettilo con gli altri, paisà – aveva risposto il grosso sergente nero – anche lui avere mamma.”
I brandelli di carne erano sparsi dappertutto, erano perfino attaccati, in alto, ai tronchi degli alberi e l’odore era troppo forte. Bisognava fare in fretta perché stavano arrivando i giorni caldi, ma si doveva procedere con molta attenzione perché le mine, le trappole e le bombe inesplose erano, dovunque, in agguato.
I fratelli più grandi, e molti padri, erano ancora lontani: deportati, dispersi o prigionieri in tutta Europa, in Russia, nel Nord Africa, nei campi di prigionia degli Alleati.
Erano i poveri resti dell’esercito italiano e ci sarebbero voluti mesi e mesi prima di rivederli tornare a casa, magri e disfatti.
I genitori, gli adulti che erano rimasti al paese, stavano cercando di ricominciare a vivere, a lavorare, ma tutto era così spaventosamente indefinito e irreale che solo il fatto di essere ancora in vita costituiva una certezza.
Soltanto quei ragazzi, tra i quindici e i diciotto anni, vivevano la loro meravigliosa primavera tra bagni nei torrenti, pulsioni sessuali, balli e musiche americane e delirio di potenza con le armi in mano.
Essi riprendevano possesso della vita, della gioventù interrotta o mai iniziata e riconquistavano il loro territorio, quelle colline lasciate per troppo tempo agli americani, ai tedeschi e ai partigiani.
La conquista della felice incoscienza fu l’avvenimento più bello di quei giorni: quando ci si poteva tuffare nel fiume dalle briglie più alte e poi asciugarsi al sole mentre si sparava qualche colpo di fucile mitragliatore.
Il Passo della Canala, ultimo baluardo della resistenza tedesca e ricco di trincee, casematte, armi e munizioni abbandonate in fretta, divenne presto il territorio franco, il feudo intoccabile di quei giovani matti e allegri.
Era una mattina ai primi di giugno del quarantacinque quando Mario, accaldato e impettito, saltò giù dalla bicicletta in corsa lasciandola cadere pesantemente a terra e s’infilò, tra i rami bassi e i rovi, giù per il breve e stretto sentiero che conduceva al fiume.
Arrivato in vista degli amici che si tuffavano, gridando e ridendo, in una profonda e cristallina bozza d’acqua si bloccò, si tirò indietro, con le dita a rastrello, il ciuffo di capelli neri e ribelli liberandosi gli occhi e la fronte sudata.
Al mattino presto si sarebbe detto che stava per piovere, ma ora Il sereno aveva conquistato quasi tutto il cielo e il sole si era fatto largo tra le poche nuvole rimaste picchiando con forza sui corpi vigorosi dei giovani bagnanti.
Mario osservò, per qualche istante, con soddisfazione gli amici che, ignari, continuavano a giocare; s’infilò il pollice e l’indice della mano destra, piegati ad arco, in bocca e soffiò con quanto fiato aveva in corpo emettendo un fischio secco e perentorio.
Si mise poi in posa statuaria: le mani nelle tasche dei calzoni, le gambe larghe, un sorriso malefico e meraviglioso stampato sulle labbra.
“Oh, Mario, che c’è – fece Beppino alzandosi in piedi, con l’acqua che gli arrivava all’ombelico, e asciugandosi, con le palme aperte, il viso – fai il verso al Duce?”
Mario non mosse un muscolo, continuò a sorridere, prese fiato e annunciò:
“Ho trovato una mitragliatrice, con un mucchio di munizioni: è come nuova. L’ho già provata. Con quella siamo più forti della Quinta Armata.”
Gli amici saltarono fuori dall’acqua senza dir parola e cominciarono a rivestirsi in fretta.
Le camicie si appiccicavano sulla pelle bagnata e le scarpe rotte strizzavano i piedi, ma nessuno ci badava e nessuno badò alla nuvola grigia che, per un attimo, coprì il sole.
Il torrente Vezza scorreva al fondo di una ripida e stretta vallata: in quel tratto scendeva a salti per le piccole cascate che cercavano di rallentarne la corsa e formava dei laghetti minuscoli, ma comodi per i tuffi e i giochi acquatici.
Da un lato aveva il folto dei boschi di castagno e dall’altro la schiena brulla e irregolare dei ravaneti formati dalle scaglie e dagli scarti dei marmi lasciati cadere dalle alte cave.
Uno dietro all’altro, di corsa, i ragazzi del fiume presero a risalire l’argine mentre Mario, dall’alto, guardandoli con orgoglio e superiorità, tirò fuori dalla tasca della camicia un pacchetto di sigarette americane e se ne accese una respirandola con voluttà e facendosi passare il fumo dalle narici.
“Ci siamo – disse Romano, raggiungendo per primo il compagno – andiamo a provarla!”
“Piano, piano – lo respinse, appoggiandogli la mano aperta sul petto, Mario – questa è una cosa seria. Qui siamo in sette – continuò rivolto agli amici affannati che gli stavano intorno, in cerchio – e la cosa deve rimanere solo tra noi. Solo noi siamo la Quinta Armata. E sia chiaro che la mitragliatrice è solo mia e che voi guardate e io sparo.”
“Mi pare giusto!”
Annuì Pallino, che era il più giovane e il più piccolo del gruppo.
E, come per siglare l’intesa, si soffiò il naso tra le dita e si pulì la mano ai calzoni corti.
Beppino prese la sigaretta di bocca a Mario, tirò una boccata e, guardandolo serio negli occhi, gli fece:
“Bravo Mario, dato che il comandante della Quinta Armata sono io, ti promuovo mitragliere. Ora non diamo nell’occhio: ci si trova tutti tra mezz’ora in cima alla Canala – e rivolgendosi al fratello minore ordinò – Gigi: vieni anche tu, ma stammi vicino e non fare di testa tua!”
“Va bene, va bene.”
Sbuffò l’altro che era poco più alto di Pallino.
Pietro, detto il Silenzioso, si grattò la testa, scosse le spalle e sorrise.
Si mossero per partire, ma Beppino, che non voleva dare nell’occhio, li fermò, cercò dentro il tascapane che portava sempre a tracolla e tirò fuori una bomba a mano:
“Un saluto al Bagno Mimì!”
Esclamò gettando la bomba nel punto dove l’acqua era più profonda.
L’esplosione, forte, alzò in verticale un’alta colonna d’acqua e scagliò , da tutte le parti, a pioggia: sassi, ciottoli, detriti e pesci.
I ragazzi, sghignazzando, si coprirono la testa con le mani e le braccia mentre il boato inseguiva la propria eco su per la vallata rimontando il bosco e rimbalzando con forza fino alla cima delle pareti di marmo incise nella vetta del monte Costa.
“Così si fa!”
Gridò Pallino, mentre Fraschetta: agile, svelto, secco e furbo e con due occhi che parevano cercare sempre qualcosa all’infinito, correva di nuovo giù al fiume saccheggiandolo dei pesci morti che emergevano sul pelo dell’acqua ancora smossa dalle onde dell’esplosione.
“Procurate del pane – gridò, di nuovo tutto bagnato, ma raggiante – che al resto del pranzo ci penso io.”
“Ora andiamo davvero via di corsa – ordinò Beppino – che, con questa botta, mi sa che arrivano i carabinieri.”
Mario saltò sulla bicicletta e partì a velocità incurvando la schiena, ritto sui pedali, con la testa tutta affossata nelle spalle e piegata in avanti quasi a toccare il manubrio per sfruttare meglio la discesa.
E dietro gli altri, a piedi, a corsa alzando rumore e polvere sul selciato.
“Aspettatemi! – gridava Pallino che era rimasto indietro e che nella foga era intrampolato nelle scarpe troppo grandi per lui cadendo e graffiandosi ginocchia e palmi delle mani – Aspettatemi o ve la faccio pagare!”
Tutti risero e nessuno si fermò.
Per giungere al sentiero che li avrebbe condotti in cima al passo della Canala dovevano attraversare il paese.
Sgattaiolarono tra le prime case in ordine sparso, arrampicandosi per gioco sulle rovine, dissimulando, fischiettando, salutando le poche, indaffarate donne che incontravano, prendendo a sassate cani e gatti randagi.
Romano si fermò a chiacchierare con la Iolanda che, allora, avrà avuto neanche quindic’anni, ma che era così tonda, rossa e bella che pareva una pesca: tornava dai lavatoi e riportava i panni puliti a casa.
Durante lo sfollamento aveva perso la mamma e un fratello: uccisi e stuprati nessuno sapeva da chi, ma gli restavano ancora il padre e due fratelli più piccoli da guardare e i suoi occhi di bambina avevano già perduto la luce della spensieratezza.
Da quando era finita la guerra Romano e Iolanda si incontravano quasi tutti i giorni e si scambiavano poche parole di saluto e teneri sorrisi imbarazzati.
Romano si sapeva innamorato di lei perché tutte le volte che la vedeva perdeva l’orientamento e pareva che Iolanda avesse una calamita addosso che lo attraeva senza possibilità di resisterle; avrebbe voluto dichiararsi, ma ogni volta non trovava il coraggio e rimandava alla successiva.
Ora forse stava per balbettarle qualcosa, una dichiarazione preparata magari nella notte insonne, ma Pallino lo raggiunse correndo e quasi gli franò addosso:
“Andiamo Romà! Se no si fa tardi.”
Romano salutò Iolanda con il cuore in subbuglio:
“Ciao – le disse con imbarazzo totale – ora devo andare… ho un affare importante da sbrigare…”
I due giovani scapparono di corsa mentre la ragazzina riprendeva la sua strada con rassegnata e dolorosa indifferenza.
Ora dovevano risalire il corso dell’altro torrente che attraversava il paese: era lì che la guerra aveva lasciato le maggiori distruzioni: neanche una casa era rimasta in piedi e tutti i ponti erano stati abbattuti.
Giunti nei pressi di una fontana Pallino si fermò: si fermava sempre in quel punto.
Romano si voltò a chiamarlo.
“Ora vengo, un momento solo. – rispose il bambino – E’ qui che i tedeschi hanno preso il mì babbo. Tornava dal piano: era andato a scambiare della farina di castagne con del sale e del formaggio. L’han portato in Germania a lavorare… ma ora che la guerra è finita è sicuro che torna. Nessuno l’ammazza il mi’ babbo!”
“La so già la storia del tu’ babbo. Me l’hai già detta cento volte. Vieni via, su: che s’arriva ultimi.”
Romano si rimise a correre e Pallino dietro, con le sue gambette svelte.
Superarono, di slancio, una giovane donna che tornava da fare una povera spesa:
“Saluti alla Tedesca!”
Gridarono con cattiveria i due amici.
Lei, con gesto istintivo e fugace, portò la mano verso il fazzoletto che teneva legato in testa a nascondere i capelli rapati e rinnovò, dentro se, l’affronto e la vergogna per la punizione subita.
E, come un bagliore, le tornarono negli occhi gli occhi così azzurri di quel giovane soldato tedesco che aveva così fortemente amato e voluto.
I ragazzi sghignazzarono volgarmente mentre la donna si allontanava senza dire niente e il suo sguardo raccontava di malinconia, dolore, rabbia, dignità offesa, impotenza, emarginazione, amor perduto…
Fine prima parte – continua