XIV
Sandro aveva giocato la sua miglior partita di scacchi: la partita dalla vita e aveva messo in seria difficoltà Fischer che, stupito dalle inaspettate qualità dell’avversario, solo ricorrendo a tutta la sua esperienza e bravura, era riuscito, alla fine, strappare una patta.
Gli spettatori, pochi ma qualificati, erano rimasti affascinati dal gioco, lineare ed efficace, dell’ultimo arrivato e ne avevano acclamato le clamorose potenzialità.
Sandro si era gongolato, era salito in cattedra, si era perfino lasciato andare a ricostruire e commentare alcuno passaggi decisivi della partita.
Poi, tutto gasato, aveva commesso un errore tanto stupido quanto banale: aveva accettato di giocare la rivincita.
Era contento, carico, sicuro di sé, ma purtroppo quella sera lui aveva già dato tutto quello che poteva.
Le sue energie mentali, nervose e fisiche si erano esurite nel mostruoso sforzo della prima partita.
La sua capacità di restare concentrato e di espandere il pensiero oltre le successive sei, sette mosse era rapidamente venuta meno.
Come a volte gli accadeva si era entusiasmato troppo di se stesso, aveva preteso troppo dalle proprie qualità, si era allargato oltre il possibile e ne avrebbe pagato presto le conseguenze e il suo scarso allenamento avrebbe presentato il duro e inesorabile conto.
La seconda partita era stata una disfatta, un massacro: Sandro aveva commesso, in fase di apertura, una prima svista assai banale e dannosa e, da quel momento, era stata una sequenza di errori, uno dietro l’altro.
Tutto ciò lo aveva condotto ad una rapida quanto indecorosa fine.
“Ora riconosco il tuo gioco. – ghignò Fischer quando Sandro adagiò il proprio re sulla scacchiera e stese la mano in segno di abbandono – Prima ti eri dopato?”
“No – rispose Sandro cercando di mascherare la rabbia – è che prima avevi già le lacrime agli occhi, stavi per cadere in depressione e, così, adesso ti ho lasciato vincere.”
Poco dopo la combriccola degli scacchisti si sciolse.
Tornato instrada Sandro avvertì una lama di freddo tra le suo ossa: tirava vento sul fiume, un freddo che invitava le poche persone per strada a riparare rapidamente verso casa.
Sandro era arrabbiato con se stesso e si ripeteva, mentalmente, che non avrebbe mai dovuto accettare di giocare la seconda partita.
Passeggiò a lungo, senza meta, da solo, per le strade deserte e buie del paese cercando di farsi passare il nervoso e sperando, senza dirselo, di giungere a casa dopo Anna per non dover stare in angoscia ad aspettarla. D’altra parte non si sognava neanche lontanamente di presentarsi all’assemblea.
Due ragazzotti ubriachi di birra e di stupidaggine sbucarono da dietro un angolo ringhiando e ridendo.
Lo indicavano con aria torbida e goffa e si davano pacche e spinte.
“Oh, te. – disse uno – Oh, dico a te, fermati!”
Sandro sfilò via, passandogli vicino, senza rispondere, senza dargli ascolto, come se nella strada non ci fosse che lui.
Quello più alto cercò di sputargli addosso, ma Sandro aveva già allungato il passo e si era messo a distanza di sicurezza.
I due presero a seguirlo, gli gridarono dietro che volevano una sigaretta.
Sandro si sentì prendere da timore e rabbia, cercò di dominarsi, di darsi contegno:
“Non fumo, non ho sigarette – disse senza fermarsi, senza voltarsi – andate a letto che è meglio. Non vi reggete più.”
Non era molto distante da casa, avrebbe potuto darsela a gambe, ma non ebbe cuore di fare un’altra figuraccia e, poi, se Anna fosse stata ancora fuori?
Continuò a zigzagare attraversando la strada da una parte all’altra con i due ubriachi attaccati alle costole che, caricandosi l’un l’altro, diventavano sempre più nervosi:
“Il signorino ha la susta – disse il più basso che portava una barbetta rada e lunga sotto il mento – ora gli insegno l’educazione.”
“Dai, Tommy – aizzò l’altro – fagli vedere chi sei.”
Tommy mise una mano sulla spalla a Sandro:
“Se non fumi – disse – se non hai le sigarette ci sganci diecimila lire, subito, senza storie, o ti spacco il culo.”
Sandro si voltò sgomitando:
“Toglimi le mani di dosso – gridò, spingendo via il giovane – sei uno stupido moccioso. Stammi lontano.”
Il secondo ragazzo si fece avanti:
“Perché alzi la voce? Perché offendi? – rantolò – Io ho quasi diciassette anni, non sono un moccioso e, guardami, sono il doppio di te. Ora fai il bravo, ti abbiamo chiesto solo un favore, dacci diecimila lire e tutto finisce bene!”
Sandro si guardò intorno: non c’era anima viva, osservò i due aggressori e vide che, effettivamente, erano molto più grossi di lui e, sicuramente, molto più decisi e cattivi.
“E’ pazzesco – pensò – per diecimila lire mi farebbero a pezzi…”
Si frugò in tasca e allungò una banconota al più vicino.
Fece per andarsene.
“Fermo, fermo! – intimò Tommy – a lui dai i soldi e a me no? Che sono più stronzo io?”
“In verità, – disse Sandro tirando fuori un altro foglietto da diecimila – stronzi siete tutti e due. E, ora, per cortesia, levatevi dai piedi.”
“Ce ne andiamo, ce ne andiamo.” Disse quello alto.
“Ce ne andiamo, – ripeté Tommy avvicinandosi sempre più a Sandro – ma non chiamarmi più moccioso!” e gli sparò una ditata sul naso: secca, di taglio, con l’indice teso e duro.
Sandro barcollò all’indietro per il dolore, gli occhi gli si chiusero, serrati a trattenere le lacrime e il naso cominciò a buttare sangue, come una fontana:
“M’hai rotto il naso, delinquente!”
I due balordi erano già lontani, le loro ombre barcollanti sparirono nello scuro della notte e, da lontano, per un po’, si continuò a sentir ridere e cantare.
Sandro, seduto sul marciapiede, aveva riempito il fazzoletto di sangue. Si sentiva dentro una feroce rabbia impotente, avrebbe voluto piangere e gridare, avrebbe voluto essere violento e forte per vendicarsi subito, avrebbe voluto… avrebbe voluto…
Si rialzò, dopo qualche minuto, con la testa confusa e le gambe malferme: lo spavento, più del dolore e dell’emorragia, lo aveva fortemente provato. Lamentandosi a bassa voce, imprecando contro la sorte, si avvicinò ad una cabina telefonica:
“Ora chiamo i carabinieri.” Pensò.
Infilò nella cabina: la luce di servizio era spenta, bruciata da tempo, cercò di prendere la cornetta, ma attaccato al telefono c’era rimasto solo un mozzicone di filo. La cornetta, strappata, era stata legata in alto, a rappresentare una doccia.
Una macchina passò lentamente e la luce dei fari illuminò, per un attimo, una scritta a pennarello che, sul vetro della cabina, chiosava la messinscena:
<lavati, che puzzi!> diceva.
Sandro uscì fuori, si rigirò, osservò quell’emblema di degrado e tirò un calcio, feroce, alla porta.
Si fece terribilmente male al piede.
Zoppicando raggiunse casa.
Le luci erano spente.
Infilò la chiave, con mano tremante, nella serratura del portone d’ingresso.
Alle sue spalle sbucarono Anna e il suo accompagnatore:
“Guarda che sorpresa! – esclamò, tutto cordiale e festoso, il ragionier Marchi – Sandro perché non è venuto all’assemblea, si è perso una serata memorabile! Sua moglie è stata divina!
Anna, a proposito, mi raccomando, parlagli subito della proposta che ti ho appena fatto…”
“No, no! Non ora! – gridò Sandro entrando in casa – Per oggi non voglio più sentire niente: io non ho avuto una serata memorabile, tutt’altro!
E sono sicuro che, se la Divina mi avesse ascoltato, ora sarei molto più felice…
ma è meglio non parlarne, buonanotte!”
Sandro chiuse con violenza il portone alle su spalle.
Bull si svegliò sentendo il grave sbattere il portone, uscì dalla cuccia, si stirò allungandosi sulle quattro zampe, piegò la schiena ad arco convesso ed ululò forte e ripetutamente alla luna.
Fine Capitolo XIV – continua