“No! Non ora Carpi. Sto aspettando il magistrato e devo ancora decidermi a telefonare alla famiglia di quella povera ragazza. Mi creda, non è proprio il momento. Si vada a riposare che ne ha bisogno, quando sarò libero la chiamerò io.”
Otello girò i tacchi e si recò nella saletta della televisione: ormai erano rimaste poche persone in attesa di deporre.
Seduto allo stesso posto della sera precedente c’era l’ingegnere, ancora con il ghiaccio sul viso.
Otello gli andò incontro.
L’altro lo guardò con odio, tirandosi su.
Si osservarono per qualche attimo in silenzio.
Il giovane poliziotto avrebbe voluto scusarsi, ma la vista di quell’uomo presuntuoso e insulso lo irritò di nuovo e, senza una parola, se ne andò.
In cucina trovò la solita ragazzina e una signora anziana: fingevano di lavorare, ma confuse ed eccitate dagli avvenimenti e da questi stravolte non sapevano più dove mettere le mani, né cosa fare.
“Scusate – chiese il giovane – mi fate vedere dov’è la porta che dà sulla cantina?”
“Di fronte alle scale”
Rispose la donna asciugandosi le mani con il grembiale.
“È chiusa a chiave?”
“No, perché?”
“Ma la notte la chiudete a chiave?”
“No, perché?”
“Niente, niente. Grazie.”
Otello, senza essere visto, scese di nuovo in cantina.
Accese la luce: la cantina era grande, più grande di come gli era sembrata nella precedente, fugace intrusione. C’erano scaffalature colme di bottiglie, scatoloni, barattoli e scatole.
Cercò la finestrella dalla quale si era calato prima e la trovò ancora aperta.
Ora la luce esterna entrava decisamente da quella e da un’altra apertura assai più piccola.
Sul pavimento c’erano tracce di fango che arrivavano fino ai primi gradini.
Fece più volte il giro di tutto lo stanzone per vedere se ci fossero altri indizi, ma tutto gli sembrò normalmente al suo posto.
Non c’era niente di anomalo o che, almeno ai suoi occhi, potesse sembrare tale.
Vide uno sgabello e si ci mise sedere.
La stanchezza lo assaliva, improvvisa, lasciandolo scarico e vuoto.
Ripensò a tutta quella strana, orribile storia e trovò inutile tutto quel suo affannarsi a cercare in una cantina la firma dell’assassino.
Solo ricostruendo, attimo per attimo, tutta la vita e soprattutto gli ultimi giorni di Susanna gli investigatori avrebbero potuto capire chi avesse avuto il movente per ucciderla; chi con così tanta caparbietà e volontà orrenda l’avesse seguita in quella notte di tormenta e avesse atteso, nascosto chissà dove, il momento buono per colpirla, inerme, a tradimento.
Si rese conto che il vero lavoro era quello che svolgeva, di sopra, il commissario e che il suo era poco più di un gioco.
Stanco, sfiduciato, angosciato, appoggiò le spalle al muro, stese le gambe indolenzite e chiuse gli occhi.
Rivide le forme calde e morbide di Susanna, la curva sensuale della sua schiena; gli tornarono alla mente le sue parole, ammirò di nuovo la sua sicurezza, la sua integrità morale.
Vide di nuovo il viso di lei e, nel suo sonno, nel suo sogno di giovane uomo fortemente provato dalle emozioni e dai sentimenti vide il viso di Susanna trasformarsi in quello di Laura, sorridente e sognante, all’età di quindici anni.
Ricordò i versi, rubati a un libro del liceo, che tutte le mattine a quel tempo, entrando a scuola, le sussurrava un po’ sul serio e un po’ prendendola in giro.
Le sue labbra si mossero appena.
“Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pieta del suo fattore i rai;
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
che i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro.”
Non stava sognando, ma aveva perduto il contatto con il mondo esterno. Vagava nella sua mente a cavallo del tempo. Guardò ancora in viso Laura, poi aprì gli occhi e vide Sandra che lo accarezzava piano.
“Otello, stai male?”
Domandò lei.
“Trovommi Amor del tutto disarmato.”
Sussurrò, ancora, lui.
“Che dici? Stai male?”
Ripetè Sandra preoccupata.
“No, no – disse lui riavendosi – Stavo sognando; sono solo un po’ stanco.”
“Cosa fai quaggiù? Mi ha detto Grazia che avevi domandato dov’era la cantina. Sono venuta per scusarmi per la scena di prima.”
“E’ andato via il tuo uomo?”
“No, è stato fermato dagli agenti che ancora devono ascoltarlo. Ma lui non è più il mio uomo. Ora è solo il mio socio in questa pensione.”
“Socio? Non mi sembra il tipo di socio che è di grande aiuto.”
“No, hai ragione; ormai, da quasi due anni, non è più d’aiuto. Anzi. Ma all’inizio è stato lui che ha avviato l’attività. Qui c’era solo un vecchio rudere: lui l’ha trovato e per ristrutturarlo ci ha buttato molti soldi. Io ci ho messo solo il mio lavoro e l’amore per lui. Eravamo felici ed entusiasti. E il lavoro andava bene perché in tre anni avevamo già pagato tutti i debiti e stavamo cominciando a guadagnare bene, poi…”
“Poi?”.
“Poi lui è cambiato: è come crollato, come se dopo aver dato tutto quello che poteva non ce l’avesse più fatta a proseguire lo sforzo. Il suo cervello, all’improvviso, ha fatto corto circuito e si è arreso. Non ha più voluto lavorare. Stare dentro la pensione lo rattristava, soffocava. Diceva che il mondo era là fuori e lui voleva vederlo e prenderlo; diceva che avrebbe voluto tutto il possibile, subito. Era stanco di lavorare, voleva godersi la vita, alla grande. Ha azzardato, ha giocato, ha avuto donne, ha viaggiato, ha bruciato montagne di soldi. Ora stiamo affondando nei debiti e lui corre dietro alla cocaina. E’ venuto a chiedermi soldi anche ieri sera per un affare che, dice lui, ci sistemerà per tutta la vita e io, per la seconda volta, l’ho cacciato via e non gli ho dato niente. Lui ha pianto, su in ufficio, mi ha implorato, mi ha minacciata, ma io l’ho mandato via.”
“Gli servono soldi per la droga?”
“Gli servono per tutto: per la droga, per i debiti di gioco; gli servono soldi per affari che lui crede milionari a che, poi, gli vanno sempre male. Ora vuole vendere la pensione, vuole una mia firma: c’è gente che vuole la pensione per ripagarsi dei debiti che lui ha fatto. Ma io non firmo, gliel’ho detto, piuttosto mi faccio ammazzare”.
“Eh, brava. Chissà che, stanotte, non ci siano andati vicino.”
“Cosa?”
Disse lei spalancando gli occhi.
“Vieni – disse Otello alzandosi e prendendola per mano – andiamo a parlare con il commissario.”
Sandra, ammutolita, camminava lenta a fianco di Otello. Il profumo dolce di lei s’infiltrava soave nelle narici di lui e lo avvolgeva, dai polmoni alla mente, alleviando le pene del suo cuore.
Il commissario questa volta era libero ed ascoltò con attenzione e meraviglia il racconto di Otello.
“E’ una ricostruzione molto interessante disse alla fine ma per il momento è solo un’ipotesi fantasiosa, non suffragata da nessuna prova oggettiva; quindi dobbiamo procedere con cautela. Comunque ascolteremo questo Angelo Cristalli e verificheremo il suo alibi. Lei, signora, può uscire”
Disse a Sandra.
Quando la donna ebbe chiuso la porta rimase per qualche istante in silenzio osservando Otello: erano seduti di fronte, ai due lati lunghi di un tavolo da sei posti.
Sopra il tavolo un quaderno grande a quadretti pieno di appunti, scarabocchi e disegni; pieno di punti interrogativi grandi mezza pagina e di sottolineature e cerchi. A un tavolo più piccolo, li vicino, era seduto l’agente che aveva verbalizzato tutte le deposizioni.
Il commissario si passò una mano sulla testa, appoggiò la schiena alla spalliera della sedia e si stirò.
“Comincio a essere vecchio”
Disse a bassa voce; poi si ritirò in avanti, appoggiò i gomiti sul tavolo, puntò gli occhi intelligenti sul viso di Otello e si accese una sigaretta.
“Finora hai fatto una metà del lavoro da un buon investigatore, – disse serio – ora devi metterti dall’altra parte. Devi cercare di spazzare via, di distruggere la tua stessa ipotesi per vedere se regge; devi far questo più volte, molte volte prima di convincerti che sei sulla strada giusta, altrimenti potresti mettere nel guai un innocente.”
Otello ascoltava con attenzione e annuiva.
“Vuoi una sigaretta?”
Chiese il commissario.
“No grazie”.
“Comunque – riprese Lattanzi – visto che sei in gara con me a chi scopre prima l’assassino devo dirti che dalle deposizioni raccolte stamani è emersa solo una cosa interessante.
È una insinuazione lasciata cadere dal tuo amico ingegnere, che, detto tra noi, è proprio un bel tipetto simpatico, alla mano, cordiale. Comunque, io gli ho saputo parlare e l’ho convinto a non denunciarti. Perché, se avesse voluto, con tutti i testimoni che c’erano avrebbe potuto farlo e ti avrebbe messo nei guai.”
“Io so, lo so bene. Grazie.”
“Dunque, l’ingegnere ha detto …”.
“… che stanotte uno che dormiva nella saletta della televisione si è assentato per più di un’ora. Tra l’una e le due e dieci, per l’esattezza.”
“Appunto!”
Assentì il commissario infastidito.
Guardò, poi, l’orologio
“Ora io vado a pranzo – disse – nel pomeriggio ascolteremo quel tizio, l’amico della proprietaria… come si chiama?”
“Non conosco il suo nome”
Sussurrò Otello.
“Beh, bene. Per fortuna c’è ancora qualcosa che non sai, moccioso”
Esclamò soddisfatto il commissario alzandosi in piedi e aggiustandosi la camicia nei pantaloni.
“Carlo Santoni” disse l’agente con tono burocratico.
“Bene! Alle due ascolteremo di nuovo Carlo Santoni e vedremo cosa ci dirà di bello. Comunicagli di restare a disposizione fino al mio ritorno – ordinò all’agente – e di’ alla proprietaria di dare da mangiare a voi e a tutti quelli che non abbiamo ancora mandato via. Poi manderà il conto all’amministrazione. Carpi, vieni con me, andiamo a pranzo.”
“Posso cambiarmi prima?”
Chiese Otello mostrando i vestiti sgualciti e sudici.
“No, non c’è tempo. Non ti formalizzare.”
Fine parte settima – continua –