Quando si risvegliò erano le sei e venti del mattino e aveva la schiena a pezzi.
Tutti gli altri dormivano ancora tra sospiri e versi strani.
Aveva mal di testa e la bocca impastata.
Si alzò indolenzito, si aggiustò nei pantaloni la camicia, tutta sgualcita, s’infilò la giacca e l’impermeabile e uscì dalla stanza cercando di non fare rumore.
Sentì che in cucina qualcuno stava già lavorando, si affacciò sulla porta e uno splendido odore di caffè appena passato gli entrò, malizioso, nel naso: una ragazzina stava scaldando due grossi bricchi di latte e aveva sistemato delle brioches surgelate nel forno.
Otello chiese e ottenne la sospirata tazzina di caffe e si sentì subito assai meglio. Ora aveva bisogno d’aria; usci all’aperto, sul piazzale.
Non pioveva più, ma una fitta e fredda nebbia inumidiva e avvolgeva tutto.
Cominciava appena a fare giorno.
Respirò profondamente l’aria gelida e un brivido gli percorse il corpo.
Si stropicciò forte gli occhi, sentiva la necessità di lavarsi la faccia.
Fece qualche passo, si avvicinò a una vecchia quercia e si guardo intorno: si sentiva come un’ombra vaga nella nebbia.
“Non ho voglia di tornare in quel bagno.”
Pensò.
Si sbottonò i pantaloni e si mise a pisciare con liberazione al calcio dell’albero.
Un grido disperato, allora, tagliò come una freccia l’aria e terrorizzò il giovane che rischiò di bagnarsi tutto.
In fretta Otello richiuse i pantaloni e corse dentro la pensione: da quella maledetta pensione proveniva quell’urlo sgraziato e disperato.
La ragazzina della cucina assieme a un’altra donna gli venne incontro, avevano occhi spaventati.
“Di sopra – dissero – hanno gridato di sopra.”
Otello corse su per le scale.
Qualche cliente si era affacciato alla porta della propria camera mezzo nudo, con i capelli in disordine.
Uno del primo piano, senza parole, indicava con un dito alzato di salire al secondo piano.
Otello raggiunse l’ultimo piano con il cuore che gli batteva in gola, senza fiato. Appoggiata al muro, fuori dalla sua camera, c’era Sandra con le mani sulla bocca e lo sguardo nel vuoto.
Otello, a corsa, entrò in camera.
Sul letto, scoperta, in mutandine e camicia, aggomitolata sul fianco destro, c’era Susanna con gli occhi chiusi e le ginocchia piegate vicino l’addome, come una bambina.
Pareva dormisse: il volto era sereno, ma era inzuppata in un mare di sangue color rosso scuro: era morta.
Otello ebbe la tentazione di scappare, ma si avvicinò alla ragazza mmorta.
Sul petto aveva due macchie più scure: erano i fori di entrata delle pallottole.
Le toccò la gola e senti che era fredda: il suo cuore non batteva più da un pezzo.
Otello uscì, chiuse la porta a chiave e si mise la chiave in tasca.
Frugò nella tasca interna della giacca e tirò fuori il tesserino:
“Sandra, sono l’agente di polizia Otello Carpi. – disse con tono diverso dal solito, professionale e duro – Nessuno deve entrare in questa stanza e nessuno deve uscire dalla pensione fino all’arrivo dei miei colleghi. Vada nel suo ufficio e chiami subito il centotredici. Io scendo di sotto a vedere che nessuno se la fili.”
La pensione si era animata, le voci si rincorrevano dappertutto, l’agitazione e l’eccitazione crescevano mano a mano che le notizie, frammentarie e inesatte, si trasmettevano da una persona all’altra.
Tutti si interrogavano, tutti volevano sapere.
C’erano tre uscite dalla pensione. Otello ne fece chiudere due dalla donna della cucina, si fece consegnare le chiavi e si mise in posizione da poter controllare l’ingresso principale.
“Non credo che serva a molto – pensò – l’assassino ha avuto tutto il tempo per andarsene o per fare sparire le prove. Comunque speriamo che arrivino presto i colleghi.”
Tornò Sandra: aveva il volto stremato, era pallida. Sembrava che dovesse cedere da un momento all’altro.
“Ho telefonato”
Mormorò.
In quel momento l’ingegner Bonessi puntò Otello, era rosso in viso, agitato e più prepotente del solito.
“Lei, come si chiama, non può chiuderci qui dentro. Io ho già perso, ieri, mezza giornata. Il mio lavoro e il mio tempo costano molto più del suo. Io me ne devo andare!”
“Abbia pazienza, ingegnere, so che ha fretta, come tutti, ma è successa una disgrazia e dobbiamo seguire le regole.”
“Lei, caro giovanotto, ha le sue regole, io ho le mie! – insistè Sergio – Io devo correre a lavorare, non posso fermarmi. Io con il mio lavoro e con i tanti milioni di tasse che pago allo Stato le mantengo lo stipendio, la faccio mangiare tutti i giorni. Si tolga subito da quella porta.”
“Ingegnere, stamattina non possiamo discutere di politica, la prego. Si calmi e abbia un po’ di pazienza. E’ veramente successo un fatto gravissimo, altrimenti non mi permetterei mai di agire così.”
Otello cercava di tenere un tono pacato e professionale, ma dentro di sé non riusciva quasi più a controllare il dolore e lo sgomento.
I pensieri gli si confondevano in testa, ingorgandosi uno sull’altro.
Avrebbe quasi voluto piangere.
“Io me ne frego di quello che si permette o non si permette! – gridò deciso e cattivo Sergio – Le lascio il nome del mio avvocato, se vuole parlerà con lui. Non mi faccia perdere altro tempo O se ne pentirà.”
Avanzò verso la porta.
“Se tocca quella porta – disse Otello con fermezza – la dovrò arrestare.”
“Io la denuncio per sequestro di persona.”
Insistette Sergio.
“Si fermi!”
“Ci provi lei a fermarmi, se può. Non vorrà mica spararmi! Io sono un uomo libero! Io me ne vado.”
“Anch’io me ne vado – disse da dietro un altro – pago il mio conto e me ne vado.”
Una donna prese Otello per la giacca e gli urlò in faccia:
“Lei ci vuol tenere chiusi qui con un assassino. Lei è un pazzo! E’ solo un ragazzo, non può difenderci.”
E pianse.
Otello la spostò bruscamente:
“Nessuno vi farà male – disse – mantenete la calma. Tra pochi minuti saranno qui i miei colleghi e tutto si chiarirà.”
Otello capi che la situazione gli stava sfuggendo di mano, si sentiva sudare e rimpianse di aver lasciato la sua pistola nella valigia dentro il portabagagli della macchina; si sentiva prendere dalla paura.
“Buongiorno a tutti – disse l’ingegnere mettendo la mano sinistra sul pomello della porta – ne ho assai di questo pallone gonfiato, io me ne vado!”
“Non tocchi quella porta!” ripetè Otello.
Si era radunata una folla che si accalcava sempre più vicino al giovane poliziotto e vociava con crescente agitazione.
L’ingegnere girò il pomello e fece per aprire.
Otello gli tirò, con tutta la forza, un cazzotto sotto l’orecchio sinistro.
Sergio piegò le ginocchia e, senza un lamento, si afflosciò a terra.
“Toglietelo da qui – disse Otello, rotolando con un piede l’uomo – e state calmi. Sandra, per favore, porti un po’ di ghiaccio e glielo metta sul viso, così non gonfia.”
La folla era indietreggiata e si era allargata, mormorando di disappunto; qualcuno si era messo a sedere, qualcun altro si era andato a chiudere in camera.
“Almeno serviteci la colazione!”
Esclamò un altro.
“Oh Madonna, che paura – pensò Otello guardandosi le nocche arrossate – spero di non avergli fatto troppo male.”
Passarono alcuni minuti di assoluto silenzio rotti solo da qualche lamento dell’ingegnere, che, con un panno pieno di cubetti di ghiaccio sul viso, accasciato sopra una poltrona a gambe stese e larghe, si stava riprendendo.
Otello continuava ad avere male alla mano.
“Meno male che è bastato un cazzotto solo – pensò – e che non è tanto grosso.”
Di colpo gli venne in mente l’operaio dai grossi baffi e pensò alla sua lunga assenza durante quella brutta notte. “Ma no, non avrebbe senso – si disse- neanche la conosceva Comunque lo farò presente al magistrato.”
Ci furono altri lunghi, interminabili e tesi minuti, poi si senti la sirena della polizia.
La macchina frenò brusca nel piazzale della pensione schizzando lontano acqua sporca e fango.
Dopo pochi attimi arrivò anche un cellulare della polizia. Dai due automezzi scesero cinque poliziotti in divisa e uno in borghese.
Entrarono con fare deciso.
“Buongiorno – disse l’uomo in borghese – sono il commissario Lattanzi.”
Otello gli andò incontro presentandosi e in breve gli fece il quadro della situazione.
Il commissario sembrava un uomo molto capace e pratico. Doveva aver passato la cinquantina, ma il suo fisico era ancora asciutto e atletico, era alto e quasi rasato a zero.
Gli occhi azzurri penetravano fissi e attenti dentro quelli, un po’ timorosi, di Otello.
Alla fine il superiore si congratulò con il giovane collega.
“Bravo ragazzo, mi sembra che tu abbia fatto un buon lavoro. Lo farò presente ai tuoi superiori. Speriamo che il nostro amico ingegnere non voglia piantar grane per quella sberla, perché potresti avere delle noie. Comunque sia, cercherò di lavorarmelo io. Mi dispiace per la tua licenza – disse, infine, dandogli una pacca sulla spalla – ma oggi avrò bisogno ancora del tuo aiuto per verificare le testimonianze. E ora via, al lavoro. Portaci a vedere quella povera ragazza.”
Il commissario accese una sigaretta e seguì Otello assieme a due dei suoi uomini, gli altri rimasero sotto con gli ospiti involontari della pensione.
Fine parte quinta – continua –