In questi ultimi tempi, per diverse coincidenze e fatti che non è rilevante raccontare in questa sede, mi è tornato alla mente un fatto, accaduto molti anni fa, che ha marcato in modo significativo il mio modo di valutare gli avvenimenti, i comportamenti e gli intenti della vita quotidiana di tutti noi.
Era la primavera del 1979, frequentavo il quarto anno del Liceo Scientifico “Barsanti e Mattuecci” (poi “Michelangelo”) di Forte dei Marmi, con quella leggerezza incosciente che caratterizza i diciotto anni di età e che pure li rende belli.
Quando sei in quarta superiore ti senti “padrone” dell’istituto che frequenti, ne hai piena contezza, conosci pregi e difetti, lati oscuri e meraviglie di tutte le persone che vivono, seppur con compiti differenti, quella stessa comunità: dai bidelli, ai compagni di studi, al professore più ostico da affrontare.
Comunque, almeno per me e per molti dei miei compagni di studi quel tempo era un tempo di goliardica, folle, felicità.
La nostra classe era isolata dalle altre, al piano terra dell’ala lato Massa del palazzo che oggi ospita il Municipo di Forte dei Marmi e questo alimentava le nostre più eccentriche e anarchiche abitudini.
Una mattina, una mattina di primavera appunto, durante la lezione di fisica, il nostro Professore venne chiamato in segreteria per non so quale incombenza. Confidando nella nostra anagrafica maturità il professor Sergio Di Russo si assentò raccomandandoci serietà e prosecuzione in autogestione degli studi.
Non so da chi o per cosa partì la successiva scintilla, fatto sta che dopo pochi minuti tutti i gli studenti e le studentesse della 4B presenti quel giorno allo scientifico del Forte, si erano chiusi a chiave nella loro aula e alcuni di loro (io tra questi) stavano cantando a squarciagola la nota opera goliardica “Palle rosse e gialle”.
E fu proprio mentre veniva intonata la strofa “Il Profesor di fisica soffiando in un cannello, si rese incandescente la punta…” che Sergio Di Russo cominciò ad urlare e a tirare cazzotti contro la porta chiusa a chiave.
A quel punto la marmaglia vociante si azzittì, tutti tornammo veloci e sgomenti ai nostri posti e una nostra coraggiosa compagna di classe aprì la porta.
Il professore entrò in aula come un toro infuriato, tirò fuori il registro e decise di interrogare due malcapitati: me e un mio compagno di classe che, evidentemente, avevamo nel canto, toni alti e ben riconoscibili.
L’interrogazione di fisica in quarta liceo scientifico fatta da un professore imbufalito fu una mattanza che continuò anche dopo la nostra resa, che era stata praticamente immediata.
Rimandati ai nostri posti il Professor Di Russo, a cui sarò grato per l’eternità, si alzò e ci domandò se conoscevamo la storia dell’uccellino assiderato al Polo Nord.
Al nostro diniego la lezione di vita ebbe inizio.
“Un uccellino caduto da chissà quale nido stava muorendo di freddo e di fame sulla neve polare della Tundra. Abbandonato dalle ultime forze, esalato l’ultimo respiro e emanato l’ultimo fremito cadde nella neve, distese la testa e chiuse gli occhi.
Lì vicino stava per caso passando una grande renna che brucava svogliatamente i pochi arbusti, muschi e licheni che trovava. Camminando, camminando passò proprio vicino all’uccellino morente senza vederlo: si fermò, contrasse appena la lunga schiena e si liberò con una grande cacata che densa e calda andò a coprire completamente il corpicino del povero volatile. La grande renna riprese il suo andare e presto scomparì nel bianco orizzonte.
Il calore della cacca, intanto, aveva rdato vita ed energia all’uccellino che trovò gusto anche ad assaporare questa miracolosa sostanza. Ripreso vigore l’uccellino scavò veloce con le sue alette un’uscita verso l’alto, tutto felice tornò alla luce con la testa e si mise a cinguettare, con tutte le forze ritrovate, un melodioso canto di giubilo.
Lì vicino stava per caso passando una grande volpe argentata che, assai affamata, venne attratta dal canto del giovane uccello: si avvicinò, lo estrasse dalla cacca con un’abile unghia della zampa destra, lo scosse un poco per ripulirlo e, in un solo boccone, se lo mangiò.”
La classe tutta, muta ascoltava il racconto del professore di fisica con un’attenzione che non aveva mai avuto prima e che non avrebbe ritrovato mai poi. Il professore fece una lunga pausa rispettata da noi con religioso silenzio. Poi riprese e ci domando: “Questa storia contiene tre morali. Le avete comprese?”
Silenzio, nessuno di noi aveva capito nulla.
Sergio Di Russo disse allora:
“La prima: non sempre chi ti mette nella merda lo fa per il tuo male.
La seconda: non sempre chi ti toglie dalla merda lo fa per il tuo bene.
La terza: se sei nella merda fino al collo, cosa cazzo hai da cantare?”